Due volte attore, doppiatore
Seriamente Lionello non credeva alla serietà irreparabile dell'esistente
Oreste Lionello, a fine anni Settanta, era già Oreste Lionello. Ma i bambini che per ragioni di famiglia frequentavano le sale di doppiaggio romane non sapevano, allora, chi fosse quel signore allegro, con il berretto di lana colorata e la sciarpa a righe, che ti rincorreva nel corridoio facendo la voce di Gatto Silvestro. Ne avevano anche paura, come quando al circo arrivava il clown.
Oreste Lionello, a fine anni Settanta, era già Oreste Lionello. Ma i bambini che per ragioni di famiglia frequentavano le sale di doppiaggio romane non sapevano, allora, chi fosse quel signore allegro, con il berretto di lana colorata e la sciarpa a righe, che ti rincorreva nel corridoio facendo la voce di Gatto Silvestro. Ne avevano anche paura, come quando al circo arrivava il clown e un po' ti faceva ridere un po' ti faceva indietreggiare, e allora nascondevi la faccia nella giacca di papà. Ieri, alla notizia della morte di Lionello, gli ex bambini che si aggiravano nelle sale di doppiaggio sul finire degli anni Settanta non hanno pensato all'attore, al doppiatore di Woody Allen, del dottor Stranamore, di Charlie Chaplin, all'imitatore di Andreotti, all'uomo del Bagaglino, al traduttore istantaneo di versi francesi in rima baciata (lo fece per il film “Cyrano de Bergerac”), all'artista di cui ieri Giorgio Napolitano ricordava “il delicato tratto satirico”. Hanno pensato invece a quella scena: Lionello che ti rincorre facendo strani versi e chiamandoti non per nome, ma con un ossequioso “Signorina Tal dei tali, signorino Tal dei tali: venga qui!”.
Il fatto è che Lionello dava del “lei” anche agli adulti, anche ai colleghi di vecchia data, dava sempre del “lei” ed era il suo gioco – e non si riusciva a capire se quei ghirigori di cavalleria vocale, quelle formule di somma educazione contenessero reale stima, leggero sfottò, irriverenza o l'insieme di queste tre sfumature. Fatto sta che alla fine quel “lei” era diventato un segno di riconoscimento. Lionello a volte dava del “lei” anche a sua figlia Cristiana, quando lavorava con lei come direttore di doppiaggio – e un giorno, molti anni fa, forse per temprarla, visto che era ancora adolescente, le fece ripetere una scena di “Manhattan” ben cinquantasei volte.
Non andò meglio all'assistente che Lionello sottopose, per un periodo, a piccole sfide bonariamente dispettose: “Incideremo questa scena solo tre volte, saranno tutte e tre perfette, ma solo una andrà esattamente ‘a sinc', e sarà lei a dirmi quale”, al che la poveretta, pur di non sbagliare sincronizzazione, cominciò a lavorare in piedi, per poter percepire persino il più impercettibile scollamento voce-immagine. Una volta, poi, una giovane attrice che aveva lavorato con Lionello in qualche film, ma “in colonna separata” (cioè incidendo la voce in giorni diversi), si ritrovò finalmente il mostro sacro in sala, accanto a lei, al leggio. Intimidita, se ne uscì con un: “Sono contenta di incontrarla, è un onore lavorare con lei”. Lionello non disse “grazie”, bensì “senta, ma la pagano per dire queste cose?”. Era una dichiarazione di stima al contrario. Erano scherzi-non scherzi del Lionello che non credeva a nessuno e neppure a se stesso, perché era già oltre, già nella fase “smitizzazione”.
Erano trabocchetti burloni accompagnati da regali, gesti gentili e improvvisa generosità – cioccolatini, monete, camei in cortometraggi di amici fatti senza chiedere compenso e per il gusto di divertirsi a interpretare, come nei doppiaggi dei film di Fellini, sei o sette personaggi. La sua severità era il retaggio di un mondo che non c'era più e che Lionello aveva recentemente raccontato a Ilaria Stagni nel documentario “L'arte del doppiaggio”: sono cresciuto artisticamente nel secondo dopoguerra – diceva – quando si era molto più rigidi nel recitare. E scherzava sulla sua “fortuna”: i doppiatori affermati negli anni Sessanta-Settanta non avevano capito, lì per lì, le potenzialità di quello strano nuovo attore americano, quel piccoletto occhialuto, e allora avevano chiamato me, un giovane, raccontava Lionello. Quell'attore era Woody Allen, e oggi agli amici di Oreste viene sempre in mente la volta in cui, dopo una serata al Bagaglino, Lionello si presentò alla prima di “Match Point” ancora truccato da Berlusconi – al che Woody, che pure conosceva bene il suo alter ego vocale italiano, fece una faccia perplessa se non schifata.
“Bontà d'animo”, ripetevano ieri attori, politici, amici e collaboratori nel ricordare Lionello. E qualcuno diceva: “Sembra impossibile pensare che non c'è più, pensarlo sul serio”.
Perché Lionello non prendeva sul serio nulla, che è poi un modo per prendere sul serio tutto. Aggrediva le cose serie con serissima leggerezza, come il suo adorato Charlie Chaplin, di cui aveva doppiato a braccio, senza una prova, il discorso “hitleriano” ne “Il Grande dittatore”. Non credeva o non voleva credere, l'autore comico Oreste, alla serietà irreparabile dell'esistente. E non considerava neppure l'ipotesi “interruzione dell'emozione”: un attore non può smettere di recitare, per nessuna ragione, foss'anche la morte. Tanto che un giorno, al funerale di un amico attore, riuscì a evocarlo come se fosse lì con lui, su un palco immaginario di vita vera, nel mezzo di un consiglio di amministrazione della società che Lionello aveva creato e in cui l'amico aveva a lungo lavorato. Era il gesto più affettuoso che si potesse immaginare in quel momento: non crederci. E i presenti, pur nella serissima serietà del luogo, come per incanto sorrisero grazie a Oreste che non sorrideva affatto.
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