Come te nessuno Maicon

Beppe Di Corrado

Maicon è il gomito in fuori: corre così, col petto dritto, i polsi tesi e i gomiti piegati. Sembra un'ala, quel braccio: l'angolo tiene la vela spiegata per spingere di più. Corre, corre, corre. Veloce e continuo, perché così si fa avanti e indietro, prima di battersi il petto, prima di urlare “sono il più forte”.

    Maicon è il gomito in fuori: corre così, col petto dritto, i polsi tesi e i gomiti piegati. Sembra un'ala, quel braccio: l'angolo tiene la vela spiegata per spingere di più. Corre, corre, corre. Veloce e continuo, perché così si fa avanti e indietro, prima di battersi il petto, prima di urlare “sono il più forte”. Maicon ha la faccia di uno che sa di essere sopra la media: glielo si legge in faccia e anche ogni volta che apre la bocca. Non è modesto, non è dimesso. Non ha bisogno di schermirsi perché è diverso: l'unico nel ruolo e nel genere, un colosso agile, un armadio pesante e mobile, un difensore, un centrocampista, un attaccante. Moderno, di più: contemporaneo. Quello che manca in ogni altra squadra ce l'ha l'Inter ed è Maicon che ha alcuni tocchi da calcetto e il fisico da football americano. L'immagine è sempre quella di Siena: il tocco di esterno a scavalcare il portiere e poi la corsa verso la curva, seguito da Mourinho. Nudo, perché è un gladiatore. Maschio, perché un gol così all'ultimo minuto o quasi dice che hai le palle. Poi il pugno sul pettorale, l'allenatore scosso come un cestino di vimini sotto il suo braccio. “Sono forte, sono forte, sono forte”. Il mantra non gli serve a darsi coraggio, ma a toglierlo agli altri: Maicon per se ha già fatto abbastanza e non ha bisogno di convincersi ancora. Neanche gli avversari, però.

    Bisogna trovarselo davanti una volta: Ibrahimovic spaventa per la classe, lui per la forza, perché chiunque gli si metta di fronte sa che sarà superato in velocità e se resisterà diventerà una mosca attaccata alla linea laterale, schiacciato da questa pressa che mulina metri con il pallone e senza. E' un Facchetti di oggi, con più potenza e forse meno gol, è diverso eppure simile: l'idea di andare, di partire, di seguire, di indicare con uno scatto l'idea di un lancio, di una giocata, di uno schema. Mettigliela sulla corsa e poi lascialo giocare. La paura che fa sta nel sapere che ha anche i piedi, che accarezza la palla come ha fatto contro il Milan nel cross del gol di Adriano, come ha fatto altre volte. Allora ammesso che uno riesca a contenerlo fisicamente, poi dev'essere in grado di contrastarlo anche tecnicamente. Non è il primo terzino che sa fare tutto, solo che è l'unico che sa farlo con questa continuità. Non ha inventato un ruolo, l'ha adattato alle sue caratteristiche: peso per altezza, per agilità, per tecnica, per tattica. L'algoritmo racconta una stagione incredibile: era già forte nell'era Mancini, ma quest'anno ha fatto di più. Semplicemente il migliore. Non c'è partita, non ci può essere. Nel suo ruolo non c'è un solo calciatore nel pianeta che possa pensare di essere meglio di lui. E forse non reggono anche altri rivali di altri ruoli. Dici “ma è un terzino”. E' questo il bello: il calcio di oggi è fatto di questi mostri, di quello che una volta era il due, stava perennemente sulla fascia destra a controllare l'ala sinistra agile, scattante, tecnica, oggi trasforma quello stereotipo in una statua di bronzo che fa 105 metri in 13 secondi.

    Qualcuno l'ha chiamato Bolt, come il recordman dei cento metri alle Olimpiadi di Pechino. Maicon è identico nella corsa spavalda e diverso nell'approccio allo sport. Qui non ci sono le chiacchiere della Giamaica: il sole, il mais, l'alimentazione strana, gli allenamenti a piedi nudi. Qui c'è una catena di montaggio personale che gli ha permesso di costruirsi campione. Si allena anche nel cervello, da solo, quando gli altri hanno finito. Conta i passi giusti della falcata, calcola i tempi di reazione. Si studia, si capisce, si migliora. Si guarda. Allora appena arriva a casa dopo la partita Maicon si rivede: “A volte ritorno dalle trasferte alle tre di notte e mi riguardo subito per capire dove posso migliorare”. C'è una storia di cibo, però. L'ha raccontata la Gazzetta dello Sport all'inizio del campionato: “La conclusione di un lungo discorso sulle sue abitudini alimentari è stata che lui è una specie di Braccio di Ferro, ma al contrario: forte come Popeye, e su questo non ci sono dubbi, però le verdure le mangia dopo aver fatto uno sforzo, non prima: ‘A casa mia moglie Simone mi prepara la sopa, una zuppa di verdure. Non mi gonfia i muscoli, non mi fa correre di più: semplicemente mi fa bene e la mangio sempre dopo le partite. Sempre'”.

    Corre lo stesso, Sisenando Maicon, che si chiama così senza neanche sapere perché. L'ultima leggenda dice che il funzionario dell'anagrafe avesse capito male il padre di questo bimbo appena nato: aveva detto di aver scelto Michael e si trovò Maicon, cioè la versione da pronuncia del nome voluto, ma con l'ultima lettera sbagliata. Leggenda, però. La verità non la sa neanche lui, o se la conosce non vuole raccontarla: “Boh, non ne ho idea di perché sia Maicon. Mi chiamo come mio padre, che è Manuel Sisenando”. Poi c'è anche quel terzo nome: Douglas. “La storia che mi chiamo Douglas perché mio padre voleva darmi il nome di un attore è una gran cavolata”. Non è simpatico, non fa nulla per sembrare accomodante, non ama le domande, non si presenta in tv, non si lascia avvicinare dopo gli allenamenti. A volte, quando sgomma con il suo Suv nel parcheggio di Appiano Gentile, la sua faccia spunta appena dai vetri oscurati. Si vede una smorfia, un ghigno, un piccolo sorriso beffardo. Si ferma appena un attimo per qualche autografo, poi va. Non cerca l'approvazione dei tifosi. Gli basta quel coro che arriva ogni domenica: “Quanto è forte Maicon, quanto è forte Maicon, quanto è forte Maicon”. La curva dell'Inter lo canta sullo stesso motivetto sul quale i milanisti hanno intonato l'inno che ha fatto restare Kakà a Milano: “Non si vende Kakà”. L'analogia non regge perché Sisenando non sarà mai Ricardo.

    Però vai a sapere chi conta di più: Maicon è stato in grado di sfrattare dalla fascia destra un monumento interista come Javier Zanetti. Se non basta questo a dargli il patentino di indispensabile, basterà il fatto che il Brasile non può più fare a meno di lui. Dunga qualche mese fa ha fatto l'elenco dei giocatori che saranno il futuro della Nazionale: Maicon sta nella lista dei primi cinque, dove non c'è Ronaldinho, per dirne una. Si conoscono da sempre, lui e Dinho. “Potrei dirgli: ‘Ti ricordi di quando giocavamo insieme nelle giovanili del Gremio e tu mi portavi i biscotti e la Coca Cola?' Eravamo ragazzini, ma lui era già fortissimo”. Il Gremio è la squadra che l'ha messo su un campo da calcio, prima di abbandonarlo. “Io ho cominciato a giocare a Criciuma, la mia città. Giocavo in casa, in spiaggia, ovunque: ho cominciato a parlare e ho chiesto un pallone. Mio padre non si meravigliò: era stato un terzino destro anche lui e poi era diventato allenatore. Mi ritrovai in difesa per sua volontà: giocavo centrocampista offensivo, decise che dovevo arretrare. Scelta giusta, no?”. Sorride solo quando parla della famiglia. Di Manuel, il padre che ha avuto una vita strana e complicata: ha scoperto chi fosse davvero solo qualche anno fa, quando Maicon giocava già ad alto livello e il papà lo andò a seguire in una partita a Joinville. I parenti lessero sul giornale che arrivava un giocatore chiamato Maicon Sisenando e capirono. “Non poteva che essere sangue del loro sangue, ci hanno rintracciato e mio padre ha riabbracciato la sua vera famiglia dopo 40 anni”. Giocava nel Cruzeiro, in quel momento. Lì, perché il Gremio, negli Allievi, decise di lasciarlo andare: “Non mi fecero passare alla squadra dei più grandi. Scartato: dicevano che non avevo il fisico”.

    Uno e ottantaquattro, settantasette chili, le spalle infinite. Il fisico che non c'era una volta c'è adesso. Si vede, si sente. Corpo a corpo, allora: ci sono avversari che si scansano, ci sono compagni che in allenamento non gli vanno addosso per paura di farsi male. Il corpo Maicon l'ha costruito perché reggesse alla fatica di una corsa infinita. Dice che ogni settimana lui fa un lavoro specifico per reggere novanta minuti allo stesso ritmo. La macchina deve funzionare sempre: ci vuole il rodaggio e tutti i tagliandi. Maicon non ne salta uno e qui sta la forza: ha più piedi della media dei migliori difensori esterni della storia, ha più fisico, ha più corsa. Ha preso un talento naturale e l'ha innaffiato con l'allenamento. Mourinho non lo sostituisce mai. Avete mai visto la lavagna elettronica con il numero 13 acceso in rosso? Maicon gioca sempre. Gioca anche quando sbaglia, tipo nell'ultima notte alcolica di Adriano qualche mese fa. Arrivarono all'allenamento del giorno dopo insieme, in ritardo e nelle stesse condizioni.

    Adriano fuori, Maicon dentro. In campo la domenica dopo, perché dopo mezza seduta era già tornato se stesso. Intoccabile anche quando sbaglia, non perché è raccomandato, perché si riprende. Quando tutti chiedevano a Mourinho di far esordire Santon, José rispondeva così: “Non posso farci niente se ha davanti il terzino destro più forte di sempre”. Perché Mourinho non può rinunciare a Maicon, neanche un minuto. “Lui non è il migliore del mondo, ma nessuno è come lui”. Moratti l'ha candidato al pallone d'oro per l'anno prossimo o per quelli a venire: è il primo terzino che potrebbe un giorno credere di farcela. “Non me lo sentirete mai dire. Se qualcuno lo dice, lo prendo come un complimento: vuol dire che sto facendo bene. Io mi sento importante, mi ci sentivo così già quando sono arrivato all'Inter, per il fatto di esserci arrivato. Per me la fortuna è anzitutto la capacità di fare bene il proprio lavoro: quando lavoro bene, mi sento fortunato”. Sa di essere bravo, non può non saperlo. Lo vede che umilia gli avversari, che li sovrasta, li schianta, li ridicolizza. Come faceva Santon a competere? Alla fine, l'ha fatto esordire il ragazzino, però a sinistra. Perché Maicon al suo posto è come dire che San Siro non si sposta. Per contraccambiare Sisenando ha inventato la perfezione: non è mai stato forte come quest'anno, non è mai stato completo come in questa stagione. Cinque gol oggi, a 13 giornate della fine del campionato e agli ottavi di Champions, sono già il suo record personale eguagliato. Sono gli stessi gol fatti nel Monaco nella stagione 2004-2005. Quella della svolta, dice lui. Quella di Francesco Guidolin, che l'ha trasformato nel calciatore che è oggi: “In Brasile attaccavo e basta, lui mi ha fatto lavorare su questo, gli devo dire grazie. Sono migliorato molto nella fase difensiva, ma non ancora abbastanza. E devo fare in fretta, perché non ho ancora così tanto tempo”.

    Montecarlo è stata la prima tappa europea. Arrivava dal Cruzeiro, la squadra che l'aveva allevato quando il Gremio decise che era troppo piccolino per poter reggere il calcio. L'Inter l'ha preso dal principato per cinque milioni quando ancora nessuno sapeva bene chi fosse. Quanti ne vale oggi? L'ultima stima dice quaranta. Otto volte il prezzo d'acquisto: più che un affare, Maicon è un tesoretto. Non si rompe, non si lamenta, non sbaglia. La partita peggiore giocata quest'anno è quella a Siena. Ha giocato così male che ha fatto il gol decisivo. Quella sera l'ha chiamato anche il padre: “Mi rompe i coglioni dopo ogni partita: le vede dal Brasile e telefona. Buoni consigli, ovviamente: lui è uno che capisce di calcio”. Ecco la famiglia. Il Brasile. E' carnevale, adesso. La nostalgia di Maicon non suona il samba. Non torna a casa quando cominciano le sfilate, non fugge per tornare a Rio o in qualunque altro posto per vestirsi alla Edmundo e sfrenarsi, non si dà malato ogni febbraio. Vive felice a Milano con la moglie, la figlia Marcella e il figlio Felipe che è uguale a lui: “Se andiamo in un centro commerciale non chiede un giocattolo: vuole un pallone, e ormai a casa ne avremo una cinquantina. Lui però è mancino e tira bene, mica come suo padre che è un disastro”.

    Questo è il difetto. Il sinistro che vale la metà del destro, il sinistro che è l'appoggio e poco altro. Mourinho se ne frega. Non gli ha mai chiesto di migliorare, perché la corsa, il fisico, la potenza secondo lui battono il saper calciare con tutti e due i piedi. Tanto Maicon corre anche quando dorme, per parafrasare la frase storica di Marcello Lippi su Pavel Nedved. Il Corriere della Sera l'ha fatto qualche mese fa, quando è andato a scavare un po' di più nel personaggio. Si trova poco su di lui, perché poco è quello che concede: due interviste vere in due stagioni, qualche battuta a fine partita. E' esattamente come quando esce dal cancello di Interpello: scappa via. Chi lo segue negli appuntamenti con gli sponsor che capitano a Milano trova un muto. Su Youtube c'è il video di un evento Nike di quest'estate: due minuti di inseguimento di microfoni e taccuini per non avere neanche una dichiarazione. Assomigliano di più alle immagini di un imputato che esce dal tribunale. “Grande Maicon”, gli gridano. Lui niente. E' fatto così, giura chi lo conosce. Non polemizza, non s'infastidisce è solo che preferisce non parlare. Preferisce i gesti, come quello di togliersi la maglia alla fine di ogni partita: il petto nudo come ostentazione di forza. Poi quattro passi fino alla panchina, il bacio alla tribuna dove c'è la moglie. Un torero a fine Corrida, stanco e felice. Quanto ha corso? Quando giocava ancora nel Cruzeiro avevano calcolato che in una partita fa almeno quaranta volte il giro completo del campo: trecentocinquanta metri per quaranta fa 14mila metri. Sono 14 chilometri e sembrano tanti. Diciamo la metà, anzi un terzo: quattro chilometri e mezzo ogni partita. A testa alta, col gomito in fuori e il petto dritto. Poi i dribbling, i crossi, gli assist. La presenza fissa, autoritaria, dominante dice agli avversari che dalla fascia destra dell'Inter non si può passare. Lo zoom arriva sempre su un tocco d'esterno oppure su quelle smorfie che fa ogni tanto durante la partita: digrigna i denti, gonfia le guance, sgrana gli occhi, urla, bisbiglia, sbuffa. E' un'abitudine e forse anche l'unica cosa che lo rende personaggio anche senza un pallone. E' una faccia diversa ogni volta e sempre unica. Non si riconosce neanche lui: “Mi riguardo e mi dico: ma chi è quello?”