I funamboli della bioetica
Il caso Eluana e la questione del testamento biologico hanno avuto il salutare effetto di richiamare l'attenzione sul problema bioetico e filosofico della “indisponibilità” o “disponibilità” della vita. Com'è noto, la bioetica contemporanea risulta caratterizzata da due grandi “paradigmi”, intendendo con questo termine di matrice epistemologica, ossia tratto dalla filosofia della scienza, i quadri concettuali di fondo entro cui organizziamo ed elaboriamo le nostre conoscenze.
Il caso Eluana e la questione del testamento biologico hanno avuto il salutare effetto di richiamare l'attenzione sul problema bioetico e filosofico della “indisponibilità” o “disponibilità” della vita. Com'è noto, la bioetica contemporanea risulta caratterizzata da due grandi “paradigmi”, intendendo con questo termine di matrice epistemologica, ossia tratto dalla filosofia della scienza, i quadri concettuali di fondo entro cui organizziamo ed elaboriamo le nostre conoscenze. Il primo paradigma trova la sua incarnazione emblematica e più influente nella bioetica cattolica della indisponibilità e “sacralità” della vita. Il secondo paradigma trova la sua incarnazione emblematica e più influente nella bioetica laica della disponibilità e “qualità” della vita.
Questa struttura paradigmatica e dicotomica della bioetica odierna viene contestata da taluni studiosi, i quali affermano: 1) che in bioetica contano più i casi “concreti” che i paradigmi “astratti” 2) che la schematizzazione sacralità-qualità della vita è falsa, in quanto anche i cattolici riconoscono il valore-qualità. La fragilità concettuale di questi argomenti è pari alla loro “orecchiabilità”. Infatti, è vero che in bioetica i “casi” giocano un ruolo importante, ma è altrettanto vero che noi non ci accostiamo mai ad essi con mente vergine, cioè priva di precomprensioni teoriche, ma sulla base – e all'interno – di determinati quadri mentali. Tant'è che, di fronte ad uno “stesso” caso, i fautori della indisponibilità della vita reagiscono in modo “diverso” dai seguaci della disponibilità della vita. Ciò risulta evidente soprattutto nei cosiddetti casi “cruciali” (come quello di Eluana), ossia nei casi in cui l'adesione ad un paradigma piuttosto che ad un altro “condiziona” visibilmente non solo i diversi schemi di soluzione del caso, ma anche il modo, persino linguistico, di rapportarsi ad esso.
In secondo luogo, la tesi secondo cui la bioetica cattolica è una bioetica della sacralità della vita non implica la (banale) affermazione secondo cui in tale bioetica mancherebbe ogni considerazione della vita in termini di qualità. Significa piuttosto che per la bioetica di matrice cattolica, a differenza di quanto accade nella bioetica di matrice laica, il criterio “primario” e “decisivo” non è (e non può essere) la qualità, bensì la sacralità. Tant'è che la bioetica cattolica, pur difendendo una certa “complementarità” fra il valore-sacralità e il valore-qualità, dà sempre la precedenza alla sacralità. E ciò a conferma della priorità assiologica e criteriologica di quest'ultima. Infatti,come sostiene Elio Sgreccia, per la bioetica cattolica “prima viene la valutazione della vita in se stessa e nel suo valore trascendente, e poi si deve cercare anche la migliore qualità di vita, nel senso sanitario e sociale”. Analogamente, nella bioetica laica la multiforme nozione di “qualità” della vita gioca un ruolo così decisivo – si pensi allo strategico concetto del “diverso valore qualitativo delle vite” – che anche gli autori laici che tentano un parziale recupero della nozione di sacralità (come nel caso di Dworkin) operano in modo da renderla conciliabile, anzi convertibile, nella nozione di qualità e disponibilità della vita (come attesta l'accettazione, da parte del filosofo americano, di una prospettiva abortista ed eutanasica moderata).
Il fatto, storiograficamente documentabile, che la bioetica contemporanea sia caratterizzata dal contrasto strutturale tra questi due paradigmi genera inevitabilmente la ricerca di quelle che Maurizio Mori ha chiamato “teorie di compromesso o intermedie” e il sottoscritto “terze vie”. Questa situazione epistemologica si è già verificata altre volte nella storia. Uno degli esempi più famosi è costituito dal “terzo sistema del mondo” di Tycho Brahe. Com'è noto, questo studioso è l'ideatore di un “compromesso astronomico” fra Tolomeo e Copernico. Infatti, non riconoscendosi più in Tolomeo, ma non essendo disposto a seguire la svolta radicale di Copernico, Tycho Brahe sosteneva, in conformità alla nuova astronomia, che Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno ruotano attorno al Sole, mentre quest'ultimo e la Luna girano intorno alla Terra, la quale, in conformità alla vecchia astronomia, rimane immobile al centro dell'universo.
Analogamente, nella bioetica odierna esistono studiosi di matrice cattolica che, insoddisfatti del modello bioetico tradizionale della indisponibilità della vita, manifestano “aperture”, più o meno consistenti, nei confronti del modello della disponibilità della vita, senza arrivare, con questo, ad accettarne le diverse implicazioni. Un significativo esempio di questi Tycho Brahe della bioetica – di varia matrice e tendenza– lo abbiamo avuto anche di recente, in quegli autori che, muovendo dall'idea secondo cui “sul piano razionale il criterio di una assoluta indisponibilità della propria vita non è fondato”, difendono il principio della “disponibilità a certe condizioni della propria vita”, pervenendo alla tesi – in cui risiede il nucleo filosofico del loro discorso – secondo cui la vita rappresenta un “bene dato in impiego responsabile al soggetto” (V. Possenti), per cui “la decisione, e quindi anche la responsabilità della propria vita, va lasciata al suo legittimo proprietario” (E. Berti).
Che questo principio, contrariamente a quanto hanno sostenuto i loro autori, costituisca una “svolta” oggettiva rispetto ai documenti tradizionali, risulta evidente (ribadisco che su questo punto Giuliano Ferrara ha visto giusto sin dall'inizio). Precisamente come costituisce una “svolta” inequivocabile la tesi di Küng – elaborata in polemica diretta con Giovanni Paolo II – secondo cui la vita è per volontà di Dio “rimessa alla nostra propria decisione responsabile”. Basti pensare che in base al nuovo principio non si può (più) sostenere, come recitano invece la “Evangelium vitae” e tutti i documenti magisteriali, che “solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine (solus Deus vitae Dominus est usque ab exordio usque ad exitum)” e che quindi la vita in quanto tale “non” ci appartiene. Ovviamente – la puntualizzazione è importante – quando la chiesa cattolica dichiara che la vita non ci appartiene non intende negare l'umano potere, garantito dal libero arbitrio, di compiere scelte responsabili “all'interno” della vita.
Essa intende piuttosto escludere il nostro potere decisionale “sulla” vita stessa, della quale, così come non ne siamo gli autori, così non ne siamo i “proprietari”. In questo senso, ad esempio, Francesco D'Agostino, dopo aver sostenuto che le terapie sono “disponibilissime” e che l'individuo può anche rinunciare alle cure, ha scritto: “Ma non posso disporre della mia vita, perché non posso rivendicare un potere che non mi spetta, come non spetta a nessun altro, nemmeno allo stato”. Viceversa, il principio secondo cui noi possiamo “disporre”, sia pure “entro certi limiti”, della nostra vita implica l'oggettivo abbandono di quel caposaldo “strategico” della bioetica cattolica che è il principio assoluto della non-disponibilità della vita. Qui il termine “assoluto” allude ad un tipo di proibizione che, secondo quanto insegna la “Veritatis splendor”, vieta una determinata azione “semper et pro semper”, ossia in modo “universale e permanente”.
Berti ritiene di invalidare ciò affermando che per nessuno, nemmeno per i cattolici, la vita è un bene assolutamente indisponibile “perché si possono dare casi in cui è lecito sacrificare la propria vita per valori più alti”. In realtà tali “eccezioni” non solo non smentiscono – bensì confermano – la regola generale, ma risultano anche bioeticamente non pertinenti, in quanto nei casi sopraccitati l'individuo non dispone di se stesso per qualche suo peculiare interesse o personale tornaconto, fosse pure il comprensibile tornaconto di evitare la sofferenza, ma per qualche ideale “superiore” (la fede, la verità, il prossimo, il pubblico bene ecc.). In altri termini, nei documenti ufficiali, il rispetto per la vita (che nell'uomo ha sempre una forma personale) si presenta come bioeticamente assoluto per il fatto di essere non-relativo all'“interesse egoistico (ipsius commodum)” dell'individuo e alla sua “soggettiva e mutevole opinione (suam subiectivam mutabilemque opinationen)”.
In ogni caso – a parte questa precisazione filologica e filosofica– dire che la vita “non” è indisponibile, significa mettere in atto una “svolta paradigmatica”, cioè porsi nella (nuova) ottica della disponibilità della vita. Del resto, la vita o è indispensabile o è disponibile, o ci appartiene o non ci appartiene. Tertium non datur. Neppure il sofista più scaltro e concettualmente attrezzato del pianeta riuscirebbe a conciliare le due tesi (che anche Benedetto XVI ha definito “inconciliabili”). Del resto, neppure i Tycho Brahe della bioetica pretendono di sostenere la mostruosità logica di una “indisponibilità disponibile” o di una “disponibilità indisponibile” della vita, optando piuttosto, come si è visto, per una disponibilità “a determinate condizioni”, della propria vita.
A questo punto, il problema non è più quello della indisponibilità/disponibilità della vita, ma quello delle “condizioni” entro cui la vita è disponibile. Problema reso ancora più urgente dal fatto che anche i laici sostengono che la vita è disponibile solo a “certe” condizioni, ad esempio che non rechi danni constatabili a terzi (la schematica tesi, elaborata ad hoc dai fautori delle terze vie, secondo cui se per la bioetica cattolica tradizionale la vita sarebbe “assolutamente” indisponibile per la bioetica laica sarebbe “assolutamente” disponibile, risulta storiograficamente smentibile). Dai pochi accenni pare di capire che per questi autori la condizione – o il limite – della disponibilità della vita risiedono nel rispetto della “dignità” della persona. Ma anche i laici parlano di dignità della vita, interpretandola in chiave di “qualità”. Per cui la vera differenza non risiede tanto nella generica idea di dignità, ma in una “specifica” interpretazione di essa, che, a seconda degli autori, può essere di matrice personalistico-ontologica o personalistico-kantiana.
Chiarito questo punto, se la nostra vita non è (più) indisponibile e noi possiamo disporre di essa, a patto di rispettare il criterio della dignità della persona, nasce il problema di “chi” deve decidere, anche in situazioni complesse e controverse, se una certa scelta sia conforme o meno a tale criterio. Ammesso che sia l'interessato stesso (e chi altri potrebbe essere, visto che si parla di disponibilità della “propria” vita) non si rischia forse di entrare in un'ottica “soggettivistica” e “relativistica”? Lasciando ai critici cattolici di interrogarsi (e pronunciarsi) su questo tema, desidero, da laico, soffermarmi su altre possibili conseguenze di tali dottrine. Parlo di conseguenze teorico-culturali a lungo termine e non di conseguenze pratico-politiche immediate, poiché queste ultime sono facilmente intuibili, sia negli aspetti positivi (stimolo a concentrarsi sui temi bioetici, nella fattispecie su quelli di fine vita) sia in quelli negativi (incoraggiamento a qualche “inciucio” politico-culturale sulla legge relativa al testamento biologico).
La prima questione, di indubbia attualità, è quella relativa al diritto o meno di morire. Ammesso che l'individuo-persona possa disporre della “propria” vita, perché non dovrebbe disporre anche della “propria” morte? Infatti, che tale diritto venga (coerentemente) negato dai fautori della indisponibilità della vita lo capisco, ma che venga (incoerentemente) escluso dai teorici della disponibilità della propria vita faccio fatica a comprenderlo, almeno sul piano delle motivazioni razionali. Tanto più che altri autori (cattolici o riformati) favorevoli all'idea della vita come “bene dato in impiego responsabile al soggetto”, in nome della “dignità” della persona e del “Dio della misericordia”, ritengono legittimo tale diritto. A dimostrazione del fatto che, in nome della dignità della persona, si possono fare discorsi alternativi a quelli tradizionali. Tant'è che, persino partendo da Kant, ossia dal filosofo per eccellenza della dignità umana, alcuni studiosi sono giunti a sostenere, contro Kant, il diritto di disporre dell'essere e del non-essere della propria vita.
Ovviamente non possiamo soffermarci su queste tipo di problemi. Osserviamo soltanto che non si possono formulare nuovi principi e, nello stesso tempo, rifiutarsi di trarre le debite conseguenze da essi, anzi accettando (e ratificando) le conclusioni dei vecchi principi, ossia dei teoremi da cui si dichiara di prendere le distanze (in questo caso l'indisponibilità della propria vita). Sarebbe lo stesso come se un matematico non euclideo o un sostenitore della fisica relativistica continuassero a ragionare sulla base delle conclusioni della geometria non euclidea o della fisica classica. Tipico, da questo punto di vista, il caso Possenti, il quale, pur essendo stato visto, in taluni ambienti, come una sorta di apripista di una bioetica cattolica “riformatrice”, in realtà, come appare evidente dalla sua replica ai critici – volta ad accreditare l' immagine di uno studioso totalmente “allineato” – sul piano bioetico concreto egli risulta più un “conservatore” che un “riformatore”.
Del resto – penso che su questo punto siano d'accordo con me anche i pubblicisti e i lettori di Repubblica – quale rara specie di “progressista” bioetico è mai uno studioso che, dopo aver proclamato la disponibilità della (propria) vita, si dichiara “contro” la sospensione dei sostegni vitali (cioè per una soluzione “ortodossa” del caso Englaro), “contro” il diritto di morire, “contro” l'eutanasia, “contro” la pillola RU 486, “contro” il congelamento degli embrioni ecc.? A conferma della circostanza, non sufficientemente evidenziata dagli studiosi, che pur essendo “potenzialmente” rivoluzionario sul piano teorico dei principi filosofici, il suo pensiero è “di fatto” sostanzialmente conservatore sul piano concreto delle conseguenze etico-bioetiche. Da ciò la natura strutturalmente ambigua e bifronte della sua posizione, oscillante fra la ricerca del nuovo e la conservazione del vecchio.
Questa analisi “a corto raggio” non smentisce i risultati di un'analisi “a lungo raggio”, in quanto la coerenza dei principi trascende, come sempre, la “volontà” e le “intenzioni” degli individui, configurandosi come una sorta di fiume in piena destinato a travolgere argini e paletti posti “contro” di esso. Per fare un paragone storico-politico, è noto che il suffragio universale è una conquista recente, poiché all'inizio si reputava che la sovranità democratica dovesse essere esercitata solo dai cittadini in possesso di determinati requisiti di cultura e di censo . Tuttavia, poco alla volta, ci si rese conto che questa limitazione era in manifesta contraddizione con lo “spirito” (e le “regole del gioco”) della democrazia, per cui si disse che il diritto di voto doveva essere esteso a tutti gli individui di sesso maschile che avessero raggiunto un determinato limite di età. Ben presto anche questo apparve un'incongruenza e si arrivò alla decisione, finalmente coerente, di estendere il voto a tutti (uomini e donne).
In altre parole, i nostri autori credono davvero che una volta che si sia accolto il principio della disponibilità della (propria) vita ci si possa “fermare” alla semplice rivendicazione della possibilità di accettare o respingere determinate “cure salvavita”? Dopo questa rivendicazione altre ne verranno, poiché accolta una certa logica (o intrapreso un certo gioco) si è costretti, piaccia o meno, ad accettarne le conseguenze (o le regole). A dimostrazione che non si può giocare a dama e a scacchi nello stesso tempo e a conferma del fatto, illustrato da Gadamer in “Verità e metodo”, che nel gioco – in ogni gioco, compreso quello intellettuale dei filosofi – si verifica sempre una sorta di “primato del gioco sui giocatori”.
Tant'è che una volta che si sia abbandonato Tolomeo non è difficile arrivare a Copernico, sia pure passando attraverso Tycho Brahe. Fuor di metafora, una volta che si sia abbandonato quel bastione della dottrina tradizionale che è l'indisponibilità della vita (compiendo ciò che in un precedente intervento abbiamo definito una sorta di “Porta Pia della bioetica cattolica”) si è oggettivamente spianata la strada ad un accoglimento universale (anche da parte dei credenti: il mondo riformato insegna) del “nuovo paradigma bioetico”, ossia del principio della disponibilità della vita in tutte le sue logiche implicazioni e conseguenze. Molto istruttivo, a questo proposito, è il caso valdese.
Anziché imboccare “terze vie”, ritenute compromissorie e pseudoprogressiste, questi cristiani riformati hanno preferito effettuare una (esplicita) scelta di campo a favore del paradigma della disponibilità della vita – e quindi del principio dell'autonomia decisionale dell'individuo in campo bioetico – fornendo, di questa scelta, motivazioni teoriche e teologiche che, per certi aspetti, sono analoghe a quelle del cattolico Küng, in quanto fondate sul comune concetto della (propria) vita come realtà disponibile, ovvero come “compito responsabile” dell'uomo.
In conclusione, riteniamo che mettere in crisi il paradigma tradizionale della indisponibilità della vita significhi, al di là delle intenzioni “soggettive” di chi lo effettua, porre le basi “oggettive” per un accoglimento generalizzato del paradigma della disponibilità della vita. “Accoglimento generalizzato” che i cattolici fedeli all'impostazione del magistero e gli “atei devoti” cercano attivamente di “contrastare”. Da ciò la loro diffidenza – o aperta ostilità – nei confronti delle (nuove) terze vie, viste come “teste di ponte” di ulteriori e più avanzate posizioni, ritenute “inaccettabili”. Posizioni che i fautori della bioetica laica cercano invece di promuovere e di accelerare. Da ciò il loro atteggiamento critico nei confronti dei funambolismi delle sopraccitate teorie, viste, in ogni caso, come spie rivelatrici delle “difficoltà” del paradigma tradizionale a mantenere le sue posizioni.
Il Foglio sportivo - in corpore sano