Strapoteri del Cav.
C'è dramma e dramma. Quello evidente, tangibile, accompagnato dalle lacrime o dallo scherno, che suscita fastidio o empatia, ma è immediatamente compreso da tutti e tutti ne parlano. E' il dramma del vinto, non importa che abbia perso la battaglia o la guerra: è il dramma di Veltroni. E poi c'è un altro dramma, più sofisticato, più segreto, impalpabile, quasi oscuro.
C'è dramma e dramma. Per esempio quello che, in un vecchio peplum demenzial-geniale di Luigi Magni, Massinissa re di Numidia racconta a Scipione Asiatico, sòla notoria e fratello del più noto e glorioso Africano. “Ero felice e regnavo in pace, avevo una moglie strafica, Sofonisba, quando arriva questo esaltato di tuo fratello che vuole la gloria, mi fa la guerra, la vince e dice che mi porterà schiavo a Roma legato al carro del vincitore e con me pure la mia sposa, allora io non ci ho visto più dalla rabbia e dalla vergogna e l'ho uccisa”. E' un colosso di colore il re ma parla romanesco, ripetendo ogni due per tre “Asià, hai capito er dramma mio?”. La replica di Scipione l'Asiatico è da antologia: “‘A Massinì, er dramma tuo l'ho capito, ma de quello de Sofonisba ne volemo parlà?”.
C'è dramma e dramma, dunque. Quello evidente, tangibile, accompagnato dalle lacrime o dallo scherno, che suscita fastidio o empatia, ma è immediatamente compreso da tutti e tutti ne parlano. E' il dramma del vinto, non importa che abbia perso la battaglia o la guerra: è il dramma di Veltroni. E poi c'è un altro dramma, più sofisticato, più segreto, impalpabile, quasi oscuro la cui comprensione, sempre difficile, passa per lo studio dei dettagli, delle pieghe. E' un dramma che può vivere chiunque, anche i ricchi e i vincenti perché anche i ricchi e i vincenti hanno un'anima e chiunque abbia un'anima ha diritto ad avere il blues. E questo è il dramma di Silvio Berlusconi, “ne volemo parlà”?
Sembra invincibile, si diverte a tenere il conto degli avversari mandati a casa, gode di un consenso senza precedenti, è al culmine del potere e dell'influenza personale. Ha appena fatto eleggere governatore in Sardegna uno sconosciuto, ora punta a superare il 40 per cento dei voti alle europee e a conquistare altri comuni, altre province. Il suo dramma è questo, che vince. Vuole assolutamente sempre vincere e la cosa gli riesce più che bene. Troppe vittorie però possono far male, il loro profumo inebria e come la fatica sprigiona tossine. Per così dire, cotanta soverchianza può condurre in pericolosa erranza. Non siamo più nel 2001, la vittoria dello scorso anno è stata dirompente, è il portato di un'onda lunga e non servono riconferme e sottolineature in ogni elezione intermedia. Né il leader può sentire ancora il bisogno di dimostrare a sé e agli altri che è insostituibile, che non ha rivali come capo di partito, di popolo. E' bene in generale non maramaldeggiare troppo, concedere l'onore delle armi e lasciare un'uscita di sicurezza: in politica come al poker, gli avversari non si scuoiano, si tosano. A maggior ragione quando non c'è da temere improvvisi rovesci elettorali per via del loro cagionevole stato di salute.
Allora non si capisce perché continuare a occuparsi in prima persona di elezioni anziché mettere alla frusta la vasta e inoccupata nomenklatura del Pdl. Perché continuare a battere piazze e strade periferiche, a fare il king maker in competizioni con scarsa rilevanza nazionale quando più nessuno, ma proprio nessuno, può decentemente aspettarlo al tornante della vittoria o della sconfitta. Nel comune sentire, la stagione combattente si è chiusa nella primavera scorsa. Oggi Berlusconi è chiamato a trasformare la meta, ad essere un magistrale capo di governo capace di coraggio e lungimiranza. Non si può dire che il governo abbia fatto grandi errori, forse ha anche fatto qualche cosa di buono. Ma finora non ha fatto nulla di grande, non c'è il colpo d'ala né quella strana alchimia che trasforma la politica in storia. Molti disincantati sarebbero già soddisfatti da una buona amministrazione della cosa pubblica ma il basso profilo può valere in tempi normali, non quando si balla vicino a un precipizio e c'è da ricostruire in fretta la fiducia.
Tra l'insostituibile Letta e il ruolo essenziale di Tremonti, il premier si comporta da arbitro, da ultimo ricorso. Non da stratega deciso a imporre il cambiamento anche se doloroso. Berlusconi sente che qualcosa non va, in questa litania di summit internazionali perfettamente inutili lo hanno descritto spesso a disagio, insofferente, in uno stato di frustrazione che va al di là delle difficoltà della situazione e della mera constatazione che l'Italia ha maledettamente bisogno degli altri. E' il suo blues all'anima, la stessa faglia che all'apice della loro lunga carriera conobbero anche personalità robuste come Mitterrand e Chirac. Arriva sempre un momento in cui il politico di razza si guarda dentro e si domanda a che serve conquistare il potere, difenderlo con accanimento se poi non si riesce a piegarlo alla materialità di un'opera e di una degna eredità. Quando un mondo si avvia alla fine, vincere senza grandi ambizioni è peggio che perdere.
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