Finché la banca va/2

Forte ci rammenta quel che di buono possono fare le banche statali

Francesco Forte

Quasi tutta la mia vita è trascorsa nell'epoca delle banche pubbliche. E non ne ho, sotto questo profilo, un ricordo negativo. Le banche statali hanno accompagnato i miei anni giovanili quando si sviluppava il miracolo economico. Ne sono state protagoniste perché hanno rilanciato le grandi imprese semi distrutte dalla guerra.

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    Quasi tutta la mia vita è trascorsa nell'epoca delle banche pubbliche. E non ne ho, sotto questo profilo, un ricordo negativo. Le banche statali hanno accompagnato i miei anni giovanili quando si sviluppava il miracolo economico. Ne sono state protagoniste perché hanno rilanciato le grandi imprese semi distrutte dalla guerra, hanno finanziato nuovi grandi imprenditori privati venuti dal nulla e le famiglie che compravano le auto e il frigorifero a rate, entrando così nel neocapitalismo.

    A Pavia, all'università, il professor Benvenuto Griziotti – di cui ero assistente  – dirigeva una rivista fondata nel 1938 da lui e dall'allievo Ezio Vanoni, nel cui comitato scientifico figurava Alberto Beneduce fra i fondatori. Beneduce di queste banche pubbliche ne aveva costruite non poche nell'epoca pre fascista, come consulente di Nitti e come ministro socialdemocratico, e poi, nell'epoca fascista, come grand commis senza tessera ma con senso dello stato. Il Crediop, l'Imi, l'Iri con le tre Bin (Banche di interesse nazionale) Comit, Banca di Roma e Credito Italiano. Ogni tanto negli anni Sessanta incontravo Pasquale Saraceno, professore alla Cattolica, cognato di Ezio Vanoni, che aveva iniziato la carriera all'Iri con Donato Menichella. Mi spiegava che la formula Iri – per cui le società del gruppo, in particolare le banche, sono autonome e quotate in Borsa – era la migliore per affiancare l'economia privata. Non so se fosse vero, ma era vero che Menichella, bancario Iri, era stato scelto da Luigi Einaudi come governatore della Banca di Italia e la gestì con la cultura che si era fatto in quella scuola.

    Ho conosciuto il “grande banchiere pubblico” Raffaele Mattioli: anziano, guidava  la Commerciale e s'occupava di cultura. Non m'è parso che fosse assoggettato al potere politico o concepisse la banca come ente burocratico, secondo la caricatura che ne danno i brillanti economisti odierni. I quali sparlano delle banche pubbliche equiparandole a baracconi ed esaltano le private, alcune delle quali non paiono così ben gestite come la Commerciale di Mattioli. Le banche Iri non hanno praticato la finanza innovativa, ma hanno finanziato le innovazioni delle imprese. Avevano un patrimonio solido, perché erano vigilate dall'Iri, loro proprietaria.

    La fine della mia carriera politica è coincisa con la fine delle banche pubbliche. Da presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, nell'ultima legislatura della Prima Repubblica, ho varato la privatizzazione delle Bin. Temevo che la politicizzazione che si era insinuata nelle Casse di Risparmio, oramai completamente lottizzate dagli enti locali proprietari, salisse sino alle Bin: aveva già investito la Bnl e intaccato l'Imi, il Banco di Napoli e di Sicilia. E' vero che erano enti pubblici e non società per azioni, vagliate dal mercato, come le Bin. Ma ero convinto, e lo sono ancora, che la privatizzazione fosse necessaria, perché le banche, nella nuova realtà, dovevano avere più capitale e non poteva provvedervi lo stato, cui sarebbero rimaste le grandi imprese di pubblica utilità, con quote di minoranza. Ma anche Imi e Crediop, a mio parere, sarebbero state utili come banche pubbliche  per finanziare  grandi iniziative di lungo termine, che non interessano al mercato.
    Guardandomi alle spalle, vedo che quando c'erano gli istituti statali l'Italia ha avuto più sviluppo e concorrenza. Non dico che “si stava meglio quando si stava peggio”. Però in un'economia non matura le banche pubbliche di credito commerciale possono essere strumento importante di sviluppo, se organizzate come società per azioni, con statuti autonomi, lontane dalla politica, vigilate da un soggetto pubblico proprietario. E anche in un'economia post capitalistica, in cui ciò sarebbe anacronistico, non lo sono le banche pubbliche che finanziano le infrastrutture di lungo termine. Che possono, in un periodo di crisi, supplire alla caduta della domanda, con la politica di investimento, non con quella keynesiana e benesserista del consumo e degli ammortizzatori sociali. Che viene definita liberale, ma costa non poco al contribuente.

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