A Mou duro
Aveva scherzato, fino a ieri. O forse stava ancora finendo di prendere le misure all'Italia mediatico-pallonara. Tra domenica e lunedì deve avere finito le operazioni di carotaggio dei campi di calcio nazionali e ieri ha buttato giù d'amblé una sintesi delle sue scoperte: “A me non piace la prostituzione intellettuale, mi piace l'onestà intellettuale”.
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“You cannot be serious!” (John McEnroe, Wimbledon, 1981)
Aveva scherzato, fino a ieri. O forse stava ancora finendo di prendere le misure all'Italia mediatico-pallonara. Tra domenica e lunedì deve avere finito le operazioni di carotaggio dei campi di calcio nazionali e ieri ha buttato giù d'amblé una sintesi delle sue scoperte: “A me non piace la prostituzione intellettuale, mi piace l'onestà intellettuale”. Parlava “del medioevo”, cioè ancora del dopo Inter-Roma, che ieri continuava a grondare i suoi veleni sulle pagine sportive dei maggiori quotidiani: “C'è stata grandissima manipolazione intellettuale. C'è stato un grandissimo lavoro organizzato per manipolare l'opinione pubblica. Un lavoro fantastico di un mondo che non è il mio: io lavoro nel calcio, ma il mio mondo non è questo”. Ce l'aveva con la stampa, ma molto più con i colleghi allenatori.
Per chi lo conosce, è una tipica tattica per difendere la sua squadra: azzannare alla giugulare i coach degli avversari: “Negli ultimi due giorni non si è parlato della Roma che ha grandissimi giocatori, ma che finirà la stagione con zero titoli. Non si è parlato del Milan che ha undici punti meno di noi e chiuderà la stagione con zero titoli. Non si è parlato della Juve che ha conquistato tanti punti con errori arbitrali”. E questa, torto o ragione che abbia, non siamo al Processo di Biscardi, José Mourinho la ritiene non solo una disparità di trattamento, ma una pura forma di “prostituzione intellettuale”. Proprio non la sopporta.
Nel nostro piccolo, l'avevamo segnalato: messo davanti al sistema sportivo e mediatico italiano, impastoiato e appiccicoso, che preferisce attaccare in branco, ma sempre con il paracadute aperto e con un'uscita d'emergenza a portata di chiappe, l'individualista speciale Mourinho, che nel suo modo un po' chiassoso è un uomo senza ipocrisie, non ci sta. Di fronte a quel modo di fare, preferisce ribaltare il tavolo: io sparo la mia, voi venite a vedere se è un bluff o se il mio gioco è meglio del vostro. Vale per gli allenatori avversari, vale per i giornali. “Mancano novantun giorni e poi me ne vado in vacanza, io parlo con la stampa perché sono obbligato dal contratto”, ha detto. Non come gli altri, tutta “gente da prime time”.
Non è necessario che sia tutto vero. Quel che conta è che questo è il suo modo di destabilizzare, se vede una situazione sbilanciata a suo svantaggio. E' la sua via alla “rupture” dello status quo. E' sempre stato il suo modo di fare quando si sente attaccato, ma sarebbe un errore considerarlo una forma di bullismo da sala stampa. Non è così. Per capire Mourinho bisogna studiarne gli esordi inglesi, al Chelsea. Al giornalista portoghese José Marinho raccontava: “Io mi distinguo per l'immagine che proietto verso l'esterno… mi devo mettere in una situazione difficile, usando la comunicazione in modo strumentale, come fattore motivazionale per la mia squadra”.
E confessava: “Sento di essere riuscito a spostare i riflettori della stampa su di me e far sì che questa iniziasse a vederci come una forza credibile nel calcio inglese”. Per capire quel che Mou ha combinato ieri ad Appiano Gentile bisogna tornare per un attimo a Londra. Lungi dall'essere uno strafottente votato all'insulto, il filosofo di Setúbal è uno spin doctor che studia il contesto in cui è inserito – sia quello culturale e sociale, che Mourinho ha già dimostrato di aver capito, sia l'ambiente più strettamente professionale – e poi agisce per modificarlo. In Inghilterra, sapeva di dover sfondare in un mondo calcistico tradizionalista, dominato da tre grandi club, che guardava con snobismo alla “squadra di un quartiere ricco”, ancor più detestata dopo l'arrivo dello straniero miliardario.
A ben pensarci, il suo atteggiamento e i risultati ottenuti – nonché l'avversione imperitura suscitata in tre anni nell'establishment sportivo britannico – disegnano una parabola analoga a quella tracciata vent'anni prima da un'altra star di prima grandezza dello sport globale: John McEnroe, “l'arrogante moccioso” venuto da Oltreoceano a predicare tennis nella sua terra santa. Quel che combinò a Wimbledon nel 1981, e più in generale il modo in cui terremotò il suo mondo chiuso, è diventato un pezzo di storia condivisa di un'intera generazione.
Quel “you cannot be serious” gridato all'azzimato arbitro Fred Hoyles fu il simbolo di una rivoluzione. Gli costò la tessera onoraria del club. “Meglio così, non ho tempo da perdere”, dichiarò alla stampa il ragazzino terribile. Come racconta Tim Adams nel suo “Essere John Mc Enroe”, quello che il tennista fece all'inizio degli anni Ottanta fu terremotare un intero establishment sportivo ancora profondamente antiquato, classista, snobisticamente sospettoso rispetto al professionismo e al denaro (dire McEnroe significa dire l'ingresso degli sponsor globali nel tennis). All'inizio degli anni Ottanta John McEnroe fece al tennis quel che Margaret Thatcher faceva al resto della Gran Bretagna: lo scosse dalle fondamenta smascherando le sue pose ingessate. Mourinho (e i soldi di Abramovich) fece lo stesso, vent'anni dopo, al mondo del calcio. Ovviamente non solo con le parole: vinse anche sul campo. Ma le parole furono un'arma preziosa per la sua partita.
In Italia storia e tradizioni, situazioni e mentalità sono diverse. Nel paese del complottismo arbitrale, Mou ha capito che quello è il terreno di ogni battaglia mediatica e di ogni guerra di nervi. Ieri, le prime cannonate hanno scosso il Palazzo e sollevato un gran polverone. Nelle parole su Sky di Massimo Mauro c'è la sintesi della giornata vista dagli avversari: “Non avevamo bisogno di Mourinho. Se vuole condizionare negativamente la cultura sportiva, ci sta riuscendo”. Si sa che Mourinho è forte nella fase difensiva, ora dovrà dimostrarlo.
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