Il ministro della buonavita

Marianna Rizzini

Il giovane vecchio, l'universalismo selettivo, il welfare responsabilizzante: al ministro del Welfare Maurizio Sacconi piacciono gli ossimori. Ha riempito di ossimori un intero Libro verde in cui si proponeva di abrogare il Sessantotto e le sue ancelle: la pigrizia, la spocchia intellettualoide, la distrazione delle famiglie, “la perfida incultura” dell'assistenzialismo e del nichilismo.

    Il giovane vecchio, l'universalismo selettivo, il welfare responsabilizzante: al ministro del Welfare Maurizio Sacconi piacciono gli ossimori. Ha riempito di ossimori un intero Libro verde in cui si proponeva di abrogare il Sessantotto e le sue ancelle: la pigrizia, la spocchia intellettualoide, la distrazione delle famiglie, “la perfida incultura” dell'assistenzialismo e del nichilismo che mette in moto un declino inarrestabile. Ma c'è un ossimoro che veste Sacconi stesso. Due parole apparentemente in contrasto: crociato laico. “Un laicissimo dubbio”, ha detto un giorno il ministro, “mi ha spinto ad agire”. Laicissimo “perché anche se oggi credo” la religione non c'entra con la mia azione senza se e senza ma attorno “al valore della vita e al suo confine con la morte”. Era un'azione estrema fino all'estremo su un caso estremo, il caso Englaro. E allora non c'è stato più spazio per l'ossimoro ma soltanto per i giudizi netti: o sei con Sacconi o sei contro Sacconi. O lo sposi o lo rigetti. Perché Maurizio Sacconi è l'uomo che ha detto “no” dopo che un tribunale, in ultimo grado, aveva detto “sì” a Beppino Englaro. E' l'uomo che con un atto di indirizzo ha detto “siete fuorilegge” alle strutture ospedaliere o convenzionate che si erano dette disponibili ad attuare la sentenza e dunque avviare il protocollo di distacco del sondino per l'alimentazione e l'idratazione di Eluana. E' l'uomo del decreto della discordia Berlusconi-Napolitano, denunciato dai radicali per violenza privata ed esaltato dai pro-life per tenacia pubblica. L'uomo che da settimane dice: in nome del principio di precauzione scelgo la vita anche se vita è stato vegetativo persistente, e da altrettante settimane si sente dire: in nome del principio di autodeterminazione si deve poter scegliere la morte quando vita è stato vegetativo persistente. E' il ministro con l'aspetto dello zio pacioccone che quando Berlusconi parla di “anarchia etica” si scalda, si tortura, insiste e non desiste. L'uomo delle istituzioni che legge la motivazione del giudice ma non si ferma. Il padre che ascolta l'invito di un padre – vieni a vedere com'è ora Eluana – ma non si ferma. Il liberale che ignora le proteste di piazza ma pur tuttavia“capisce”. Il ministro dialogante che dice vado avanti anche senza di voi e non accoglie neanche un punto dell'opposta versione dei fatti e della vita: non puoi imporre l'alimentazione e l'idratazione, non puoi impedire l'attuazione della sentenza, non puoi sostituirti a Beppino, alla madre, a Eluana stessa, leggi la Costituzione, lasciala andare, lascia stare. Niente e nessuno poteva fermare il Sacconi che dichiarava “rispetto tutti” ma prometteva di voler “lottare contro il tempo costi quel che costi”. Il Sacconi con le occhiaie nere inghiottito dalla poltrona del suo ufficio durante l'intervista a “Porta a Porta” – dolore e tormento a galla, ma nessun passo indietro all'orizzonte. Il Sacconi accusato di integralismo che apprende della morte di Eluana e si accascia come una bambola sgonfia sul banco del Senato – il banco su cui un tempo sbatteva la scarpa come Nikita Kruscev all'Onu, ed era una suola che risuonava contro Franco Marini, allora presidente dell'Aula: Franco non negarmi il diritto d'intervento.

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    O lo approvi o lo disapprovi, ma in entrambi i casi lo guardi e trasecoli: Sacconi il laico si è fatto più pro life dei pro life cattolici. Proprio lui, l'ex socialista volenteroso di Conegliano Veneto che sogna “la vita buona nella società attiva”, l'ex militante del Psi che da ragazzo faceva il maestro di tennis per preventiva fede nel lavoretto a breve termine che mantiene le ambizioni a lungo termine, il “boulot alimentaire” che oggi suggerisce ai giovani. Lui, proprio lui, il politico di professione – molte legislature, due sottosegretariati – che ha deciso di andare oltre la professione per essere avanguardia bioetica lottante. Sacconi, il ministro ubiquo che accorpava tre dicasteri in uno (Welfare, Lavoro, Sanità) e correva e si affannava e si adombrava e si lasciava scappare sottovoce un “vaffanculo” all'indirizzo dei dipietristi nascosti nel pubblico di un convegno Cisl, e si divideva fra trattative Alitalia e convegni post blairiani, e rincuorava rimproverando i trentenni male occupati o disoccupati: cari ragazzi non è colpa vostra, no, è colpa degli anni Settanta, della cultura stagnante finto progressista e dei genitori permissivi che vi danno una cuccia ma non vi forniscono aiuto per decidere sul futuro – e però cari miei datevi una mossa e andate a lavorare al bar per pagarvi gli studi, e fate esperienza che vi fa solo bene. Non s'è mai visto un trentenne che non ha mai portato neppure “una cassa di ciliege”, diceva nel luglio scorso a Nunzia Penelope che lo intervistava sul Mondo. E più le domande cadevano sul Sessantotto, più Sacconi si infervorava. E nel corso dell'estate, a ogni intervistatore di ogni possibile giornale e tivù, Sacconi parlava di speranza, di voglia di futuro, di energie salvifiche, di asili, di donne solari non più sole, indipendenti ma supportate, e magnificava la nascita di “nuovi valori” nella “comunità da ritrovare” – servono i corpi intermedi, diceva: non solo la famiglia, ma pure la farmacia, il medico condotto, l'oratorio, il frate, il carabiniere, finanche il poliziotto di quartiere. E si commuoveva, il ministro uno e trino, parlando del suo Veneto che da agricolo s'era fatto industriale passando per l'esaltazione della comunità. E intanto su Internet i forum erano pieni di commenti avvelenati: questo vuole tornare agli anni Cinquanta, questo vuole l'Italia di Don Camillo e Peppone. Ma per Sacconi non era un'offesa, ché “Don Camillo e Peppone” è il suo film preferito. E dunque con ottimismo crescente il ministro continuava a rilasciare interviste sui vizi del “sistema risarcitorio”, sul metodo per debellare l'ubriachezza al volante, sull'aiuto cash agli ultimi degli ultimi, sul non aiuto alla Fiat, sulla falda acquifera della società italiana inquinata dal lassismo paracomunista. Contraeva i muscoli della faccia, Sacconi, e si lanciava senza salvagente nella lotta contro l'assurdità dello spreco massimo: le migliaia di intelligenze buttate che tra i venti e i trent'anni si “riposano”, i giovani vecchi che si svegliano disperati e soprattutto disoccupati – e ti credo, diceva il ministro, studiano Scienze della Comunicazione, mica una solida materia, chessò, Ingegneria. E molto si arrabbiava, Sacconi, con i cattivi maestri, e prometteva di sostenere i giovani vecchi, ma a patto che si responsabilizzassero: se gli offri un lavoro e non lo accettano allora no, basta, che si arrangino. E se la prendeva con i professori sobillatori e autoreferenziali che rimpinzano di boria “quei ragazzi presuntuosi” in senso letterale – che pretendono di sapere e invece non sanno e si buttano in piazza e vogliono cacciare Mariastella Gelmini. E si incarogniva contro i falsi filosofi che inculcano la paura del futuro con quel loro disprezzo per la vita vera che offende e pretende. E forse era un po' già crociato, quel Sacconi terrigno e gioviale d'inizio autunno che inneggiava alla liberazione del paese e lanciava parole d'ordine – natalità, comunità, occupabilità – e poi infondeva pensiero positivo sull'affare Alitalia, più volitivo di un manuale d'autoaiuto americano: ce la possiamo e ce la dobbiamo fare. E poi si smentiva, sconsolato, dopo il ritiro dell'offerta Cai. Non vedo alternative, diceva con le borse sotto gli occhi e il sorriso triste, ma non si arrendeva. E dopo il libro Verde, dopo la consultazione all'inglese degli elettori sul sito del ministero (scriveteci, esortava), prometteva di onorare la memoria dell'amico Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse, con un libro Bianco (sui valori alla base della riforma del lavoro) e con una busta Arancione (sulle pensioni). Marco e le sue idee ispireranno il governo, diceva Sacconi. Il sacrificio di Marco non sarà vano, pensava.

    Non rendete vano il sacrificio di Eluana, ha detto dopo aver appreso che Eluana era morta. “Sacrificio”, ed ecco che in molti sobbalzavano: che parola usa? E il giorno successivo Adriano Sofri, su Repubblica, pur concedendo che la frase era stata pronunciata “con non so quanta consapevolezza”, glielo diceva chiaro e tondo: “… bestemmia più enorme di tutte, che accusa di un sacrificio umano, e pretende di riscattarlo, per giunta con una legge folle”.

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    Un tempo, molto prima dell'agguato a Marco Biagi, molto prima di Eluana – c'era la spensieratezza alacre dell'“ape che vola”. L'ape che vola era il simbolo dell'associazione per la Sinistra liberale che l'ex socialista Maurizio Sacconi aveva fondato con l'ex pds Sergio Scalpelli nel 1993, in pieno ottimismo della volontà, in piena Tangentopoli e in piena nostalgia per il riformismo che poteva essere e invece era finito dietro i registri degli indagati, dietro i tribunali, dietro le sbarre, dietro i suicidi, dietro lo smantellamento della Prima Repubblica. L'ape che vola era energia compressa che ricominciava a scorrere, erano viaggi sgarrupati in treno un po' per mancanza di fondi un po' per paura dell'aereo – Maurizio guarda come siamo messi, non abbiamo una lira, non abbiamo gli uffici, non abbiamo i militanti, come cavolo facciamo a fare un partito?, gli dicevano ridendo i compagni, ma Maurizio non demordeva e anzi fremeva e ricordava l'asprezza degli esordi: ero un ragazzo, solo un ragazzo, e già combattevo per la libertà ovvero contro i facinorosi figli di papà che si riempivano la bocca di comunismo senza sapere che cosa fosse. E però poi si faceva una risata pure lui, e si lanciava nella sua specialità, le imitazioni: Martelli, Craxi, il Cavaliere. Ma il meglio del meglio era Gianni Agnelli. Un giorno sentivi squillare il telefono e ti pareva davvero di avere in linea l'Avvocato.

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    Si offenderebbe un prete, un cardinale. Forse pure un papa, a sentirsi chiamare crociato. Non Maurizio Sacconi, che invece un po' si è offeso quando qualche quotidiano ha accusato il ministro della Salute “di non voler sanare il suo conflitto di interessi” – e il conflitto era Enrica Giorgetti, sua moglie, direttore generale di Farmindustria. Non si offende spesso il ministro ex craxiano che mai si è sentito ex. Al massimo si rabbuia perché soffre di nostalgia inestinguibile – Tony Blair “ha preso da Bettino”, dice Sacconi, e se l'interlocutore si mostra attonito tanto peggio per lui, ché Sacconi porta subito gli esempi: il congresso socialista di Rimini del 1982 e il manifesto del New Labour del 1995 si assomigliano, guarda qui cosa c'è scritto,  guarda lì come riecheggia. E poi scuote la testa e si chiede come facciano Giuliano Amato, Enrico Boselli e Bobo Craxi a stare con gli ex pci – io dopo Tangentopoli ho trovato naturale andare con Berlusconi, ha detto Sacconi al Magazine del Corriere raccontando altresì di aver fatto, in gioventù, una “fuga in macchina” con Gianni De Michelis – ed erano anni di fantasmi, sospetti e complotti, e gran timore di un colpo di stato. E si capisce che per Sacconi quel mondo era infinitamente più promettente dell'oggi, si capisce che nulla cancellerà quel lutto, i colpi inferti dal nemico numero due, Tangentopoli, che pur sempre discende dal numero uno: il sessantottismo che ha fatto del (solito) Sessantotto un mito avariato di sogni e progresso. Balle: era già tramonto, palude mortifera, inabissarsi di una generazione, canto del cigno della società industriale. Lo dico io, ma non l'ho inventato io, spiega Sacconi a chi osi nominare quel numero maledetto, Sessantotto. Lo diceva Gianni (De Michelis), il mio mentore, ripete Sacconi, e De Michelis ha sempre confermato pur prendendolo in giro: “E pensare che l'ho trovato comunista”. Saranno pure diversi, i due – Maurizio non andava con Gianni in discoteca al Gilda, non frequentava la Roma o la Milano da bere, tornava sempre nel weekend a Treviso a curare il collegio, il venerdì in piazza all'ora dello spritz, da bravo politico della Prima Repubblica, ma su una cosa Sacconi e De Michelis sono sempre stati concordi: Sessantotto, uguale crepuscolo degli dei già decaduti.

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    In nome della ragion laica, il giovane Sacconi, deputato a ventotto anni,  si scagliava contro il sindacato beota e contro il foraggio di stato a industrie putrescenti, e se i colleghi più esperti non lo ascoltavano, bivaccando alla buvette, l'onorevole li tampinava tra un supplì e un Campari, e mostrava carte, apriva valigette, spiegava prospetti, e faceva sempre la figura del peone sgobbone – e intanto però lui, Sacconi, si costruiva la base lassù al Nord, e faceva esperimenti di finanziamenti non assistenziali, e beveva litri di vino per cortesia verso l'elettore che gli offriva il brindisi e raccontava la storia della vigna di suo padre e rifiutava i cocktail con la bandierina colorata e ogni diavoleria alcolica troppo moderna.

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    “Essere una persona seria
    non vuol dire sempre essere equilibrati o pacati”, dice la sottosegretaria Eugenia Roccella, il braccio destro bioetico (e a volte ispiratore) di Sacconi. “Persona seria”, dicono ugualmente di Sacconi quelli che con Roccella e Sacconi non sono d'accordo, gli amici ex socialisti di Maurizio, i compagni che davanti ai suoi atti e ai suoi decreti lo guardano e lo interrogano: “Maurizio, che fai? C'è la separazione dei poteri”. Quelli che scuotono la testa quando Maurizio il crociato risponde: “Bisogna fare di più, bisogna fare di tutto”, e anche quando, fiaccato, diventa alfiere di pacatezza: “Ho sempre compreso il grande dolore del padre di Eluana e non ne discuto la scelta, ma confido che presto ci sarà una regolazione tale da rispettare il valore della vita”. E a quel punto gli ex compagni si dissociano e gli dicono “ti voglio bene ma non condivido” e si ripromettono di fargli cambiare idea, sapendo benissimo che Maurizio Sacconi troverà altri mille nuovi ossimori pur di non cambiarla.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.