Benvenuti in Africina

Sandro Fusina

Qualcuno se ne ricorderà. Tutte le imprese e le realizzazioni di Mao Zedong (allora Mao Tse Tung) erano gloriose per i cinesi. Gloriosa era stata la Lunga Marcia, gloriosa era la Rivoluzione Culturale. Gloriosa era la Lunga Nuotata nel fiume giallo. Gloriosa fu la costruzione della linea ferroviaria chiamata Tazara o Tan-Zam, perché andava dallo Zambia alla Tanzania.

    Qualcuno se ne ricorderà. Tutte le imprese e le realizzazioni di Mao Zedong (allora Mao Tse Tung) erano gloriose per i cinesi. Gloriosa era stata la Lunga Marcia, gloriosa era la Rivoluzione Culturale. Gloriosa era la Lunga Nuotata nel fiume giallo. Gloriosa fu la costruzione della linea ferroviaria chiamata Tazara o Tan-Zam, perché andava dallo Zambia alla Tanzania, e in 1860 chilometri di tragitto collegava le miniere di rame della Copperbelt dello Zambia al porto di Dar-es-Salam. Lo Zambia, da poco indipendente (1964) dalla Rodesia (e quindi dal Regno Unito) aveva bisogno di una via verso il mare che non passasse per il sud Africa, o il Mozambico, paesi ostili. La Cina aveva bisogno del rame delle miniere di Kitwe. In sei anni (gli ultimi sei anni della gloriosa Rivoluzione culturale), dal 1970 (un anno prima dell'increscioso incidente aereo, forse provocato, che eliminò Lin Piao e la sua famiglia) al 1976 (anno dell'incresciosa morte del grande timoniere e dell'increscioso arresto della di lui signora, a capo della Banda dei Quattro), in sei anni di incresciosa o gloriosa (a secondo dei punti di visti), ma comunque aspra, lotta per il potere, cinquantamila operai cinesi, tutti in divisa, tutti dotati del libretto con la copertina in plastica rossa delle massime di Mao, avevano completato la nuova ferrovia e l'avevano consegnata chiavi in mano al compagno Julius Nyerere che  reggeva la Tanzania secondo il modello africano della Ujamaa, il socialismo rurale.

    Il (quasi) disinteressato dono della Repubblica socialista cinese alla repubblica socialista della Tanzania, (costato cinquecento milioni di dollari) fu salutato come un glorioso (e luminoso) esempio di internazionalismo e di solidarietà terzo mondista. Predicavano i cinesi che era compito della Cina, il più grande dei paesi in via di sviluppo, aiutare l'Africa, il continente in cui si trovava il più grande numero di paesi in via di sviluppo.
    Tanto candore, o rossore, rivoluzionario, era però macchiato da un peccato originale. Chi era stato in Tanzania per bearsi dello spettacolo dei compagni cinesi che lavoravano gomito a gomito con i compagni africani per la costruzione del Radioso Avvenire aveva riportato una sensazione sgradevole. Aveva visto i cinesi che lavoravano duro, che deponevano gli attrezzi non per riposarsi, ma per recitare insieme le massime appropriate del Grande Timoniere, per cantare in coro l'oriente è rosso (Mao Tse tung ama il suo popolo/ egli è il grande timoniere/ nel costruire la nuova Cina/ avanziamo sotto la sua guida./ Il popolo è come il sole/ al suo apparire si diradano le tenebre./ Dove è il partito comunista / il popolo rompe la catene.).

    Ma aveva anche visto gli africani che, dopo avere rotto le catene, erano costretti a starsene con le mani in mano. Nelle squadre di lavoro non c'era un solo africano. I cinesi lavoravano per loro ma non volevano lavorare con loro. Più che di fratellanza era di paternalismo rosso che si doveva parlare. Per la circostanza si poteva adattare il vecchio adagio del dispotismo illuminato: “Tutto per il popolo, niente attraverso il popolo”. Sembrava che i compagni cinesi avessero degli africani la stessa considerazione che Federico II di Prussia aveva per il popolo. Si poteva fare molto per loro, purché non li si lasciasse mettere le mani in niente. Tuttavia chi temeva la sostituzione di un colonialismo cinese al colonialismo occidentale si tranquillizò. Terminata in tempo di record e inaugurata in gran pompa la ferrovia, i cinesi consegnarono le chiavi e se ne andarono. Non avevano insegnato agli africani a pescare ma avevano fornito loro una buona attrezzatura da pesca. In cambio non volevano che il diritto di comperare il pescato o, fuori di metafora, il rame.

    Vent'anni dopo, circa. Una generazione dopo, circa, i cinesi sono tornati. Non solo in Zambia, ma praticamente in tutta l'Africa. Serge Michel, corrispondente per Le Monde dall'Africa occidentale, Michel Beuret, caporedattore esteri della rivista l'Hebdo, e il fotografo Paolo Woods vincitore di un World Press Photo Award per i reportage in Iraq, hanno viaggiato attraverso quindici paesi, da Alegei a Città del capo per documentare la presenza dei cinesi in Africa. Il risultato è un libro, pubblicato in Italia dal Saggiatore con il titolo (fedele all'originale) di “Cinafrica, Pechino alla conquista del continente nero” (234 pagine, euro 19,50).  Le fotografie, a partire da quella in copertina, sono sconcertanti, sia per chi conserva la vecchia immagine dei cinesi in Tanzania e in Zambia, sia per chi ha dell'Africa l'idea di un continente perduto per sempre alla modernità, percorso unicamente da fame, malattie, atrocità di ogni genere.

    La fotografia di copertina già allude a una storia complessa. In primo piano, con la camicia aperta quasi fino all'ombelico, con le mani sui fianchi, con un medaglione al collo, con in testa un elmetto di plastica gialla, guarda dritto in macchina con l'aria di sfida un giovane cinese. E' una fotografia posata (praticamente tutte le fotografie del libro sono posate), una di quelle fotografie in cui al soggetto è consentito di mettere in scena l'atteggiamento che vuole proiettare sul mondo. Dietro, in secondo piano c'è un gruppo di operai neri con il casco il blu. Non sappiamo se il colore del casco indica una diversità di ruoli. Ma non c'è dubbio che il cinese è il capo della squadra. La fotografia è stata scelta per la copertina proprio per l'atteggiamento di sfida del soggetto. E' la sfida cinese in Africa al mondo occidentale. Sullo sfondo si alza una selva di tondini di ferro che non sono lì per dare un ritmo geometrico all'immagine. Sono i tondini che spuntano dai blocchi di cemento armato che si stanno sovrapponendo velocemente per costruire una grande diga sul fiume Lefini, a duecento chilometri a nord di Brazzaville nella Repubblica de Congo, ovvero nell'ex Congo francese. La didascalia di un'altra fotografia avverte che si tratta della diga di Imboulou e ne riassume la storia. Parafrasare è inutile: “La diga di Imboulou è stata progettata fin dagli anni ottanta per raddoppiare la produzione di energia elettrica del Congo. I prestatori occidentali, però, non hanno mai dato il via libera ai lavori, per l'enorme indebitamento del paese e per la sua instabilità politica. Nel 2001 la Cina ha deciso di finanziare la costruzione della diga e di costruirla”.

    Si può aggiungere che i lavori sono a buon punto, che nella cerimonia per la deviazione del Lefini l'ambasciatore cinese a Brazzaville ha avallato con la sua presenza l'annuncio del presidente Denis Sassou Nguesso che, con l'aiuto della fortuna e delle condizioni atmosferiche, la diga produrrà il primo kilowatt in ottobre di questo anno. Da sola la diga di Imboulou raddoppierà l'energia elettrica a disposizione della repubblica del Congo, che finora arriva dallo stato confinante e non sempre tranquillo della Repubblica democratica del Congo, l'ex stato libero del Congo, ex Congo belga, ex Zaire, conosciuto anche come Congo – Kinshasa. Sul successo dell'impresa c'è chi gufa. “Gli ingegneri tedeschi incaricati di ispezionare i lavori a Imboulou, in Congo, assicurano che il cemento utilizzato è di qualità mediocre e che è stato deposto su una gigantesca falda acquifera non rilevata al momento delle indagini geologiche”. Previsioni nefaste a parte, messi sul conto anche gli eventuali sconvolgimenti ecologici e microclimatici che gli sbarramenti sui fiumi spesso provocano, la diga di Imboulou è una grande opera, nello stile della ferrovia Tan-zam.

    Diverso è lo stile dell'esecuzione. Gran parte della mano d'opera è locale, cosa che al tempo della ferrovia era inconcepibile. Il giovanotto cinese che fa il muso duro in fotografia come ha visto fare al cinema ai bulli delle triadi di qualche chinatown non è in divisa. Forse non è stato neppure comandato. Forse ha scelto addirittura di venire a lavorare in Congo. Forse, come Peng Shu Li, che compare in un'altra fotografia seduto sulla branda della sua povera stanza con accanto la piccola sacca che contiene già tutto il corredo che gli servirà per un lungo viaggio in Africa, si è rivolto a un'agenzia cinese di esportazione di mano d'opera. Operaio specializzato in un'azienda statale, Peng guadagnava in Cina circa sessanta euro al mese. In Africa guadagnerà almeno cinque volte tanto. E' un emigrante tradizionale, con tutti gli handicap dell'emigrante, ma anche con tutte le opportunità. Potrà tentare qualche impresa economica personale, magari con la fortuna di Jessica Yé, fotografata in riva al mare con una fila di parenti. Arrivata a Brazzaville nel 2000 senza possedere nulla si è fatta raggiungere presto da ottanta membri della sua famiglia per aiutarla in una miriade di imprese fiorenti che spaziano da “ristoranti, locali notturni, negozi, fabbriche di infissi in alluminio, importazione di cemento” a una grande compagnia forestale.

    Oppure, si accontenterà come Jiang Su di fare il guardiano notturno in un cantiere di una società edile cinese a Lobito, nel sud dell'Angola, che concede a una bellezza locale di addolcirgli le notti nonostante la minaccia del proprietario cinese di rispedire in Cina chiunque abbia una relazione con una donna africana. Oppure, mentre i rappresentanti delle Ong occidentali dalle sigle fantasiose continueranno a sperperare il denaro pubblico dei loro paesi in fuoristrada di lusso e in pranzi di rappresentanza, consumerà il suo pasto da una gamella, accovacciato come un arabo accanto a un muro, all'ombra corta del mezzogiorno, in compagnia dei colleghi cinesi del consorzio tra la Citic (China International Trust Investimento Company) e la Crcc (China Railway Construction Corporation), incaricato di realizzare in tempo di record l'autostrada che deve attraverserà l'Algeria da ovest e est. Ironicamente un cane randagio e nero aspetterà i resti del suo pranzo, a confermare la diceria degli algerini secondo la quale i cinesi nutrirebbero i cani e i gatti per poi cucinarli.

    I pregiudizi e le incomprensioni che corrono per tutta l'Africa, da Algeri a Cape Town sono il segno che i cinesi sono presenti in tutta l'Africa. Inaffidabili e svogliati: così i cinesi considerano i lavoratori africani; macchine senza sentimenti e senza il senso dell'umorismo: così gli africani considerano i lavoratori e i dirigenti cinesi. Ma la consapevolezza della reciproca utilità è spesso un buon surrogato della simpatia e della comprensione. Sotto forme diverse, che vanno dalle immense imprese statali come la China Nonferrous Metal Mining Company che gestisce per esempio miniere e fonderie del famoso rame dello Zambia, alla piccola lavanderia privata, negli ultimi dieci anni i cinesi si sono installati praticamente in tutti i paesi dell'Africa anche nei più difficili e turbolenti. Le elargizioni di denaro  pubblico cinese, investito, prestato o donato, variano molto da paese a paese, dai più di dieci miliardi di euro dati alla Nigeria o al Sudan ai novantacinque milioni investiti nel Congo Brazzaville. Anche i numeri delle presenze umane sono ovviamente molto diversi da paese a paese. In Niger per esempio i cinesi non arrivano a mille unità e si occupano soprattutto di uranio e di petrolio. I due o trecentomila del sud africa sono invece riusciti a essere equiparati ai neri e hanno ottenuto l'Affirmative action, ovvero la discriminazione positiva che dà alle etnie già discriminate dall'apartheid  alcuni privilegi di ordine economico, sociale e lavorativo.

    I quarantamila cinesi che lavorano e abitano in Algeria, all'altra estremità del continente, sono invece coinvolti soprattutto nell'impresa del governo algerino di normalizzare il paese creando  alloggi. In un paio di fotografie di “Cinafrica” non appare neppure un cinese. In una di queste un arabo conduce per la cavezza un dromedario sullo sfondo di un gruppo di palazzoni appena finiti di costruire. E' il quartiere Bananier Bis alla periferia d'Algeri, dove si trova  un buon numero dei trentamila alloggi già costruiti in Algeria dalla China State Construction Engineering Corporation (Cscec). Nell'altra si vede l'interno affollato di una carrozza ferroviaria. I passeggeri africani guardano in macchina. Fra loro non vi è un solo cinese. E' una fotografia piuttosto strana, incongrua in un servizio sui cinesi in Africa. Per capirne il significato bisogna leggere la didascalia. Dei milletrecento chilometri di ferrovia che partendo dal porto di Lobito attraversavano l'Angola coloniale, non ne sono rimasti in funzione che centocinquanta.

    Una poco trasparente holding di Hong Kong, la China International Fund, con la missione di coordinare i finanziamenti e gli aiuti all'Angola e gestire i rimborsi in petrolio, si era assunta l'onere di ripristinare la linea. Lungi i binari erano sorti i cantieri e erano arrivati bulldozer nuovi fiammanti. I cinesi avevano piantato i loro orti di cavoli, poi un giorno “avevano mangiato i loro cani, avevano smantellato tutto e erano partiti. Del loro passaggio non erano rimaste per terra che poche pillole contro la malaria” (le citazioni, a memoria, non sono da “Cinafrica”, ma da un articolo di Serge Michel pubblicato su Foreign Policy). Del merito delle incomprensioni tra la Cif e le autorità angolane  che ha portato al fallimento del progetto non si sa. “I cinesi non hanno esperienza dell'Africa. Promettono troppo e gli africani si aspettano ancora di più”, un operatore occidentale avrebbe commentato. “Diciamo agli amici angolani: ‘E' bello che giochiate un po' con i cinesi. Divertitevi. Ma quando sarete pronti a giocare in serie A venite a trovarci'”. La ventilata assegnazione delle raffinerie di Lobito a una società americana sarebbe la conferma di questo punto di vista.

    Gli occidentali spiano ansiosi gli insuccessi della Cina. Alcuni fatti sembrano dare loro ragione. Forse al Congo Brazzaville sarà risparmiato il lutto del crollo della diga di Imboulou, preconizzato dai tecnici tedeschi, ma il rifiuto del governo del Niger (uranio), della Guinea( prodotti minerari vari) e della Nigeria (petrolio) di legarsi le mani solo con i cinesi  è un segnale confortante.
    I giochi non sono ancora chusi. Anche se alcuni casi, come il Camerun, dovrebbero fare pensare. Non è solo con il vecchio sistema neocoloniale degli aiuti e dei prestiti in cambio delle materie prima che la Cina si sta radicando in Africa. Il Camerun è in una posizione speciale. E' la cerniera tra i popoli Akan e Yoruba del Golfo di Guinea e i popoli  bantu del bacino del Congo. A Yaoundé, la capitale del Camerun, la presenza dei cinesi è molto evidente. Non si tratta solo di proprietari, funzionari o dipendenti di aziende cinesi. Sono spesso microscopici imprenditori, che inondano il mercato di prodotti a prezzi bassissimi. Persino le prostitute cinesi praticano tariffe molto più basse delle loro colleghe africane.

    L'Africa è un continente in cui la gente si fa dipingere il frigorifero nella capanna, in cui le casse da morto possono avere la forma di automobile americana. I milioni di abitanti che formicolano nelle bidonville delle città africane hanno fame di giocattoli. I cinesi glieli forniscono a un prezzo abbordabile. Da un punto di vista economico e sociale sono più in sintonia con la popolazione. Nella loro testa disprezzeranno forse ancora gli africani, ma non lo danno a vedere. Non vivono in ville cintate in quartieri proibiti, non fanno comunella con gli occidentali o con le élite africane, non spendono in una notte in albergo l'equivalente del reddito di un anno di un africano. Vendono nei mercati e per le strade, finché non possono aprire un negozietto. E' questo aspetto del radicamento dei cinesi in Africa, più che i grandi investimenti o la diffusione degli istituti culturali Confucio, che dovrebbe dare da pensare all'occidente. (Nelle foto: Paolo Woods, Algeria, 2009, tratto da “Cinafrica, Pechino alla conquista del continente nero” - Paolo Woods, “Angola, Lobito”)