The american way of crisi
Era il G20 di settant'anni fa, il G20 della Grande Depressione, e non andò affatto bene. A farlo fallire – anzi, a boicottarlo, dicono gli storici – fu il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. Conrad Black, nella biografia monumentale (e imperdibile) che ha scritto nel 2003, racconta come Roosevelt abbia fin dall'inizio tentato di ridimensionare la portata della conferenza londinese.
"L'economia del mondo soffre a causa di un declino che ha chiuso le fabbriche, limitato l'occupazione, ridotto gli standard di vita, portato alcuni stati sull'orlo della bancarotta e inflitto ad altri spese che non hanno coperture. Il mondo sta andando in una direzione che è meglio affrontare oggi, faccia a faccia, in un momento in cui le vittorie del passato sono cancellate dalla forza della disperazione”.
Con queste parole il premier britannico Ramsay MacDonald inaugurò, il 15 giugno del 1933, la Conferenza economica di Londra, cioè delegazioni di sessantasei nazioni radunate nel Museo geologico della capitale inglese per tutto un mese al fine di trovare un accordo internazionale salvacrisi. Era il G20 di settant'anni fa, il G20 della Grande Depressione, e non andò affatto bene. A farlo fallire – anzi, a boicottarlo, dicono gli storici – fu il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt.
Conrad Black, nella biografia monumentale (e imperdibile) che ha scritto nel 2003 – “Franklin Delano Roosevelt, A Champion of Freedom” –, racconta come Roosevelt abbia fin dall'inizio tentato di ridimensionare la portata della conferenza londinese. “Aveva sempre guardato con sospetto alla conferenza – scrive Black – Pensava che Herbert Hoover (che aveva deciso l'organizzazione di quel summit nel 1932, ndr) avesse cercato di sottrarsi dalle proprie responsabilità nella Depressione rifugiandosi in fattori internazionali e in idee deterministiche sulle conseguenze della Grande guerra. Hoover aveva cercato di diffondere la convizione secondo cui le condizioni economiche erano fenomeni naturali che non potevano essere evitate o affrontate se non alla stregua di cambiamenti del tempo fuori dalla norma. Roosevelt pensava anche che gli europei considerassero gli Stati Uniti i responsabili principali della Depressione in quanto questo atteggiamento li sollevava dal doversi occupare dei loro stessi problemi. Roosevelt – conclude Black– avrebbe così avuto meno pazienza nei riguardi di questo riflesso incondizionato degli europei di quanto non avessero avuto i suoi predecessori”.
Gli europei, miopi allora come oggi, guardavano con grande entusiasmo alle proposte di Roosevelt per risolvere insieme la crisi. Le attese erano altissime, i negoziati paralleli si moltiplicavano. Ma intanto Roosevelt si curava soltanto degli interessi degli americani. L'aveva annunciato durante il discorso d'inaugurazione qualche mese prima – “Non risparmierò alcuna energia per restaurare il commercio mondiale con un riaggiustamento economico internazionale, ma l'emergenza che abbiamo in casa non può attendere che questo obiettivo sia centrato – ma ancora una volta gli europei non avevano voluto ascoltare: il desiderio di un presidente finalmente a loro immagine e somiglianza impediva loro di accorgersi del nazionalismo economico che gli Stati Uniti stavano ormai attuando.
Conrad Black racconta che i segnali del boicottaggio erano ben riconoscibili: “I delegati che Roosevelt nominò per partecipare alla conferenza erano un utile indizio per capire che il presidente non stava prendendo in seria considerazione l'evento londinese”. Per metà a favore del libero mercato e per metà contrari, i delegati erano stati scelti più sulla base degli interessi del Congresso americano che di quelli del resto del mondo. A lavori già iniziati, quando ormai Roosevelt sapeva che non si sarebbe neppure presentato alla conferenza, avrebbe mandato un suo inviato speciale – Raymond Moley, sedicente ideatore del termine “New Deal” che sarebbe poi diventato repubblicano – a confondere ancora di più i colleghi europei (e anche i connazionali). Il peso del boicottaggio sarebbe rimasto sulle spalle del segretario di stato, il fedelissimo Cordell Hull, che il mondo avrebbe in seguito riconosciuto come “il padre delle Nazioni Unite”, il quale scrisse di essere partito dall'America “con le più alte speranze, ma arrivai con le mani vuote”. I negoziati per stabilire regole sulle valute di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti erano cominciati quando Hull era salpato per Londra, ma già due giorni dopo l'apertura del summit, Roosevelt cambiò idea e ritirò le parole date sulla questione.
Il 30 giugno, nel bel mezzo della conferenza, quando la Uss Indianapolis su cui viaggiava Roosevelt attraccò nell'isola di Campobello (e da lì sarebbe poi tornata indietro verso il continente americano), il presidente organizzò un picnic e poi chiamò i quattro giornalisti che lo seguivano per una partita a carte. Giocarono per un po', ma poi Roosevelt “cominciò un monologo di un'ora – ricostruisce Conrad Black nella biografia – sugli affari economici internazionali e disse che la sua Amministrazione non avrebbe sottoscritto alcun accordo che limitasse la ripresa americana o facilitasse l'esportazione sottocosto di prodotti stranieri negli Stati Uniti. Era uno scoop tremendo, ma Roosevelt cercò di fare in modo che i giornalisti non attribuissero a lui la notizia”.
La linea di rottura con l'Europa era segnata. Le delegazioni a Londra conoscevano bene la formula: il nazionalismo economico portava a una riduzione del commercio, all'abuso dei benefici forniti dai cambi e all'isolazionismo. Da lì a pochi giorni – il 3 luglio del 1933 – Roosevelt avrebbe lanciato il messaggio del definitivo boicottaggio (e ritorno a Washington) di ogni accordo internazionale: era quello che gli storici oggi chiamano “messaggio bomba”. Lo scrisse nella cabina del capitano dell'Indianapolis, sotto gli occhi del figlio Franklin. “Il mondo non si farà cullare a lungo dall'illusione di una temporanea e artificiale stabilità nei cambi da parte soltanto di alcune grandi nazioni (…) L'azione interna dei governi è ancor più importante per garantire la stabilità. E i feticci dei banchieri cosiddetti internazionali sono ormai stati rimpiazzati dagli sforzi fatti per definire un piano per le valute nazionali in grado di sostenere un potere di acquisto nel tempo”.
Da quel giorno fino alla chiusura della conferenza, Hull lavorò perché non ci fosse una dichiarazione finale direttamente ostile nei confronti di Roosevelt. “Ebbe successo – conclude Conrad Black – Il processo continuò senza più un obiettivo, raggiungendo soltanto qualche accordo minore, fino all'aggiornamento dei lavori sine die e per sempre, il 27 luglio del 1933”.
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