C'e' qualcosa di nuovo nel film della Comencini
Due partite per quattro figlie e una libertà che sa di sterilità (affettiva)
Questa non è una critica cinematografica. E però fino a oggi uno spettatore, magari distratto, sapeva che cosa aspettarsi dai film della regista e sceneggiatrice Cristina Comencini: amori e tradimenti più o meno devastanti, pranzi e/o cene di famiglia più o meno allargati, drammi parentali rimossi e non, storie multietniche e multipolari con qualche intoppo, molti rattoppi e un lieto fine a metà.
Questa non è una critica cinematografica. E però fino a oggi uno spettatore, magari distratto, sapeva che cosa aspettarsi dai film della regista e sceneggiatrice Cristina Comencini: amori e tradimenti più o meno devastanti, pranzi e/o cene di famiglia più o meno allargati, drammi parentali rimossi e non, storie multietniche e multipolari con qualche intoppo, molti rattoppi e un lieto fine a metà. Storie che, per quanto attuali, per quanto politicamente corrette, per quanto sensibilizzanti, carine, strazianti, non riuscivano a farti esclamare: “Ah, però!”. E invece stavolta, con “Due partite”, scritto (da Comencini stessa) per il teatro e arrivato ora al cinema con la regia di Enzo Monteleone, Comencini stupisce e colpisce. “Due partite”, infatti, sciarada verbale in due atti per otto donne, fotografate negli anni Sessanta (le madri) e negli anni Novanta (le figlie), è un insospettabile tentativo di risposta – ironico, caustico e non giudicante – alla domanda: che ce ne facciamo della libertà?
Che ce ne facciamo, cioè, dell'essere oggi giovani donne “liberate” (dalle lotte delle madri) e libere (perché così ci è stato detto dalla nascita, così pensiamo e così dicono tutti), se poi questa libertà – di vivere, scegliere, lavorare, viaggiare, amare, fare e disfare – rischia di fare rima con sterilità? Una sterilità affettiva, prima di tutto, che poi diventa effettiva, come raccontano in fulminanti battute le ragazze di “Due partite”, nella parte “anni Novanta”. Perché magari puoi sopportare rapporti un po' così, passioni che parevano il massimo e ti danno il minimo, e ti dici che incontrerai un altro e un altro ancora, ma poi cominci a chiederti: “Perché?”. E arriva un giorno in cui non riesci a non vedere il muro che ti si para davanti: vuoi un figlio, lo vuoi proprio, ma non si può. Lui non vuole. Oppure tu ora vuoi e lui pure ma è tardi. Oppure tu sei sola e stanca di proporre convivenze a chi non vuol sentire, pronta a essere mamma single, ma chissà perché non ce la fai.
Non si sa da dove viene, la sterilità dell'oggi, sembra dire Giulia alle amiche, raggomitolata in poltrona, dopo un funerale che la riporta a terra. Forse da te che ti difendi perché sei forte ma non d'acciaio. Forse dall'educazione ricevuta da madri che si sentivano strozzate dalla triade matrimonio-maternità-casa e hanno esagerato nel magnificarti l'opposto: indipendenza a ogni costo, amori elettivi non codificati, figli solo se e quando lo desideri e non perché così fan tutti. O forse è sterile il mondo del giovane uomo che incontri, quello che tu eleggi a tuo “amore” ma che vive, metaforicamente, con il telecomando in mano: ho infinite possibilità di cambiare persona, vita, personalità, e allora perché dovrei fermarmi, sceglierti, amarti? Fermarsi è morte, meglio galleggiare.
Un uomo che magari ti corteggia, ti porta a cena, fa l'amore con te, ti guarda come se fossi l'unica possibile, ma poi, appena vede un tuo golf a casa sua, appena gli fai una domanda, una telefonata, una proposta di troppo, appena ci sei – e si capisce che ci saresti anche domani – si sente soffocare. E allora basta, finito, non ci sei più, e non importa se avete tutti e due trent'anni e passa e sotto sotto vi piacerebbe dire: eccoci, siamo una coppia. Figuriamoci, dice Cecilia, se si parla del tabù dei tabù: fare un figlio. Rassegnata all'inseminazione artificiale, Cecilia sogna di addormentarsi incinta (ma è solo il cuscino). Non va meglio a chi consapevolmente riscatta la carriera di musicista interrotta dalla madre, come Sara. Una che sembra non aver bisogno di nessuno dall'alto dei suoi tacchi. Una che pare più saggia delle amiche quando, dopo averlo offeso, si rende conto dell'importanza di un marito “troppo buono” (e dato per scontato). Peccato che Sara non riesca comunque a vedersi “famiglia” al pensiero di sua madre Gabriella (che da trent'anni borbotta mentre la sua amica Claudia, casalinga tradita sotto gli occhi di tutti, trascorre una vecchiaia revanchista inventandosi identità fittizie su Internet).
C'è chi ha paura persino a dirlo a se stessa, “voglio un bambino”, come Rossana, compagna di un (raro) uomo pronto a essere padre. Siamo davvero più libere di ieri?, sembra chiedersi, lei che è figlia della più ribelle delle quattro donne che vediamo giocare a carte nella prima parte del film, truccate e pettinate, mogli e madri e basta, represse ma chissà se tutto sommato serene o appagate solo nella fantasia. E se ieri il dolore e l'insoddisfazione, detti a mezza bocca, avevano comunque un fondo solido su cui poggiare, oggi navigano (e ti fanno navigare) in mare aperto: questo sembrano pensare le quattro figlie di “Due partite”, che non sanno dove andare ma non vogliono tornare indietro. E cercano un modo, un po' nuovo un po' vecchio, una formula magica qualsiasi per non dover mai più dire “non se ne esce”, come fa Giulia davanti all'ennesimo fallimento di ciò che poteva essere una coppia (e un padre e una madre).
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