Una sintesi non in antitesi con il passato della destra
La marcia di Fini nel Pdl cancella le tracce del passo goffo delle oche
Gianfranco Fini sembra dare il meglio di sé proprio nel momento in cui convalida la propria autonomia culturale dal partito di provenienza. Se pure preannunciato dall'omelia funebre per An recitata una settimana fa, non era scontato che il suo primo discorso nel Pdl potesse rivelarsi il più persuasivo, quanto a rotondità e coerenza.
Gianfranco Fini sembra dare il meglio di sé proprio nel momento in cui convalida la propria autonomia culturale dal partito di provenienza. Se pure preannunciato dall'omelia funebre per An recitata una settimana fa, non era scontato che il suo primo discorso nel Pdl potesse rivelarsi il più persuasivo, quanto a rotondità e coerenza. Invece è andata così, merito anche del livellamento generale mostrato dagli altri oratori e complice forse la sopraggiunta ripetitività del discorso berlusconiano. L'impressione è che in Fini, attraverso l'eutanasia di Alleanza nazionale, abbia trovato un compimento anche quel passo ondivago e goffo del quale il suo partito era stato spesso interprete. Il passo delle oche è finito con An. Ora liberi tutti. Liberi di ricombinare obbedienze e strategie non più sulla base delle trame costrittive sopravvissute sopra le casacche finiane dalle quali, dieci anni fa, erano state strappate le onorevoli decorazioni missine.
Nel caso di Fini, venuta meno la condanna a rappresentare contemporaneamente le diverse anime di An – quella liberal-berlusconiana, quella di destra sociale e quella di establishment – si nota adesso una compiutezza di pensiero protetta dal ruolo istituzionale alla Camera. I punti di forza del suo intervento di sabato scorso sono racchiusi nell'analisi del mercatismo, nella sintesi di capitale e lavoro proposta per attingere a una concordia sociale interclassista, nel disseppellimento dell'etica civile e della cultura dei doveri come riserva aurea identitaria (quindi anche linguistica) per gestire le politiche dell'immigrazione senza scantonare tra la diserzione degli apolidi e la xenofobia tribalizzata; e infine nell'ostinato ragionamento sulla laicità positiva.
Nel dettaglio, Fini è stato abile a recuperare al dominio della politica quei “valori tradizionali” dell'economia sociale di mercato e di sussidiarietà altrimenti declinati in modo metafisico, dunque caliginoso e astratto, da Giulio Tremonti. Risulta in effetti maggiormente comprensibile il presidente della Camera quando evoca, oltre al patto tra generazioni e a quello tra Nord e Sud, anche un grande accordo tra proprietari d'impresa e lavoratori correlato alla volontà di “distribuire la ricchezza in modo più giusto”. Ugo Spirito apprezzerebbe. Più notevole ancora il passaggio finiano sulla comunità nazionale, perché segnala la volontà matura di mettere a tema il problema migratorio da un punto di vista difficile com'è quello del realismo patriottico.
Fini dice di voler “guidare il processo storico” dell'integrazione subordinandolo ai vincoli della legalità e dell'apprendimento della nostra lingua, senza per questo negare cittadinanza ai colori della pelle, ai tratti orientali e all'arcobaleno delle religioni. L'osservatore umanitarista crede di vedere nel ragionamento finiano un multiculturalismo rinunciatario. Sembra invece affacciarsi un imperativo di selezione e disciplina regolate dai princìpi immoti di chi deve concedere o negare asilo. Semmai a Fini si può rimproverare una debolezza argomentativa quando insiste sull'ineluttabilità d'una fioritura di italiani colored, giacché la meccanica migratoria più consistente (e per molti versi galvanizzante) si materializza in realtà dai paesi dell'Est europeo, cioè quelli culturalmente più affini all'Italia e popolati da genti ed etnie più predisposte a riconoscere “l'onore di vivere in Italia” e di “essere buoni italiani” (parole di Fini). Esiste dunque un modo non banale per uscire dalla palude della retroguardia leghista, sebbene il costo d'immagine possa essere elevato in mancanza di un progetto non equivocabile che si accompagni da subito ai proclami congressuali.
Infine il riferimento alla laicità, percepita come “garanzia anti ideologica” e declinata con la consapevolezza d'impugnare un vessillo minoritario nel Pdl. Fini attinge al giacimento del ghibellinismo missino – anch'esso a suo tempo non egemone – e insiste sull'obbligo che le istituzioni pubbliche siano laiche. Le sue parole sono abbastanza asseverative per escludere ripensamenti. I suoi richiami sono tuttavia mutili e strumentali – la distinzione tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio – perché appartengono all'orizzonte dottrinale ecclesiastico e sono la leva con cui la chiesa avanza nella pretesa di dissetare il fabbisogno morale italiano. Con uno sforzo in più e qualche manierismo partigiano in meno, Fini potrà uscire anche dal fondale ambiguo della laicità positiva; magari esortando alla riconsacrazione della Res Publica, l'antica genitrice di una memoria nazionale riconosciuta dal Rinascimento al Risorgimento, e dalla Grande guerra alla democrazia di massa.
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