Il direttore del Tg1 è il nuovo direttore del Sole 24 Ore
Se Gianni Riotta fosse buddista rinascerebbe telefonino
Lui è bravo e ha cominciato giovanissimo come avviene nei romanzi o per i nati bene: diciassettenne alla Cultura del Giornale di Sicilia, dove lavorava suo padre Salvatore. Fondatore della palermitana “Lega degli studenti per la rivoluzione” (assieme a Corradino Mineo), corrispondente e poi redattore romano del Manifesto.
Pubblichiamo il ritratto di Gianni Riotta apparso sul Foglio di giovedì 14 settembre 2006, quando il nuovo direttore del Sole 24 Ore fu nominato direttore del Tg1.
Lo vedranno entrare tutte le mattine al civico 14 di Viale Mazzini per dirigere il Tg1 con quelle sue camicie sempre bianche, i bottoncini sul colletto a stringere il nodo minuto e kennediano della cravatta, lo zaino nero in spalla come un soddisfatto baby boomer cinquantaduenne. Perché, ieri, Riotta Gianni da Palermo, apolide per scelta e americano per realizzarla, ce l'ha fatta a liberarsi di quella didascalia invisibile scolpita accanto alla foto sui risvolti di copertina dei suoi numerosi libri: “Eterno candidato a tutte le migliori direzioni”. Stavolta è andata ed è il primo successo del Partito democratico che ancora non c'è. Tecnicamente un prodigio, però meritato.
Lui è bravo e ha cominciato giovanissimo come avviene nei romanzi o per i nati bene: diciassettenne alla Cultura del Giornale di Sicilia, dove lavorava suo padre Salvatore. Fondatore della palermitana “Lega degli studenti per la rivoluzione” (assieme a Corradino Mineo), corrispondente e poi redattore romano del Manifesto. Alla fine dei Settanta il ragazzo era intellettualmente avanti rispetto ai suoi maestri castristi. Laureato sul concetto di verità nei linguaggi formalizzati, conquisterà un Master alla Columbia University Graduate School of Journalism di New York. Qui abita una settimana sì una no, in una casa affacciata su Central Park, con la moglie italiana, scienziata, e i due figli anglofoni madrelingua (lui l'inglese lo pronuncia così così). Suo vicino di casa è Giovanni Sartori. Chiaro che Riotta non poteva durare accanto a Livia Menapace.
Uscì giovane e adontato giacché – si dolse privatamente – non gli permisero di trasformare il “quotidiano comunista” in un germoglio sinceramente democratico. Quei vecchi gli parlavano di “stato e coscienza di classe”, lui già sognava la Net-Economy, la contaminazione dei generi, lo svecchiamento dei codici. Forse l'i-Pod. Figlio acquisito di una cultura lib-lab e misuratamente radicale, avrebbe realizzato un giornale yeh yeh. Oggi gli piace Internet, teorizza la socializzazione del sapere scandalizzando i mandarini della Microsoft, i suoi scritti vengono dibattuti dai blogger. Ecco forse perché “se scrivi di lui, gli mandi un'e-mail o gli lasci un messaggio in segreteria, Gianni Riotta ti richiama sempre”. E' la prima cosa che viene in mente a chi, interpellato per dirne male o bene o indifferentemente, soggiorna col pensiero su questo siculo-americano di rango. Eccelso uomo di relazioni, telefonista dalla voce bassa e la cordialità smisurata.
Pietrangelo Buttafuoco lo raffigurò in questo modo: “I suoi nemici dicono che passa tutto il tempo al telefono, i suoi amici non dicono niente, ma solo perché stanno parlando con lui”. Sicché se un giorno lontanissimo gli dei gli concederanno un altro transito terrestre, questo sarà senz'altro in forma di telefono cellulare. Le precedenti incarnazioni sono nell'ordine: corrispondente dall'America per l'Espresso, inviato speciale per la Stampa e il Corriere della Sera. Poi condirettore del quotidiano torinese – dal 1998 al 2002, regnante Marcello Sorgi e fu una sofferenza ingiusta non succedere al direttore com'era accaduto a Paolo Mieli ed Ezio Mauro – e subito dopo vicedirettore del Corsera con accesso alle colonne dei migliori giornali stranieri. Nonché conduttore televisivo di “Milano-Italia”, negli anni Novanta, come successore di Gad Lerner – suo naturale concorrente visto che ne ricalca i passi e poi i due non si stanno simpaticissimi – e più recentemente interprete su La7 di una meno fortunata trasmissione detta “Americana”. Più un sacco di altre cose ma non c'è spazio per elencarle.
E' così che si diventa Gianni Riotta? Molti anni fa Micromega azzardò un'interpretazione sgarbata: “Oggi i prototipi del giornalista di successo sono Gianni Riotta e Barbara Palombelli, simpatici e preparati, ma che se avessero potuto intervistarlo, avrebbero trovato tracce di cordialità anche in Hitler”. Non è proprio vero e nel caso di Riotta si contano numerose dispute intellettuali. Da sinistra gli danno del conservatore per aver detto che “nessun problema può essere risolto al mondo senza il contributo degli Stati Uniti”; da destra gli danno del goscista per aver aggiunto che “nessun problema può essere risolto solo dagli Stati Uniti”.
Lui va comunque fierissimo della tessera che gli ha spalancato l'accesso al Council on Foreign Relations, e per i militanti delle catacombe nere o rosse è un marchio di svendita alla demoplutocrazia. Riotta ha anche scritto cose severissime contro Adriano Sofri ricavandone un'aggressione a colpi di uova nel milanese corso Garibaldi. Senza dimenticare la sfida personale ingaggiata con il potentissimo Beppe Grillo che gli dà del “giornalista transgenico” dacché lui s'è pronunciato a favore degli Ogm (nel blog di Grillo danno quasi tutti ragione a Riotta e scrivono: bravo Gianni, giornalista onesto e preparato!).
Certo poi Gianni è molto permaloso, talvolta si eccita e sbaglia. Clamorosamente nella notte in cui Kerry e Bush si contendevano la Casa Bianca ad armi pari, con Kerry ancora in vantaggio: Riotta sbruffoneggiava un po' vantando alla tv il successo democrat che non sarebbe arrivato. E fu lui a titolare in prima sul Corriere del giorno dopo: “Kerry verso la vittoria”. Ma succede. Meglio allora virare verso i vezzi di Gianni, cominciando dalla frangetta da baronetto che ne consacra il dualismo con Beppe Severgnini, un altro interista ideologico che invecchiando invece di perdere capelli ne secerne il doppio. Capelli tosti da carrierista, capelli al vento da romanziere.
E arriviamo al lato debole di Riotta. Non perché non sia capace (di romanzi ne ha scritti cinque ed è tradotto pure in Grecia), ma perché sul crinale letterario tracima il narcisismo d'uno che ha vinto molto dal “Premiolino” in su (mai lo Strega per fortuna) e ha compilato un romanzo a staffetta con Umberto Eco e Antonio Tabucchi. Titolo: “La maledizione del Faraone”. Riotta è talmente romanziere che nei convivi può esordire in questo modo: “Come sostiene il mio amico Cattelan. Mi raccontava due sere fa l'amico Profumo”. Siccome sono amici tutti famosissimi come lui, la proposizione riottiana a volte si fa ambigua: “Sai, mi diceva il mio amico Ian” e questo amico non può essere da meno d'un Buruma o di un McEwan.
Ma sono appunto vezzi d'un secchione di successo. D'un siciliano che detesta il camillerismo e a vivere in Sicilia non tornerebbe più. Tuttavia non ha rinnegato la sicilitudine, semplicemente l'ha ibridata e non disdegna di alternare ai cheesburger qualche sbandata in trattoria per ingollare piatti isolani e smarrirsi in un effetto liquido. Una madeleine che declina alla maniera del glocalista, sapore provinciale in esofago cosmopolita. Moderato per senso scenico, prodiano per contingenza, Riotta sarà un perfetto direttore del Tg1 ma con lui, attenzione, a vendemmiare sarà Veltroni.
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