La catastrofe abruzzese ci ricorda che abitiamo sopra un drago affacciato nel Mediterraneo
La mano pesante del Fato distesa sull'Abruzzo ci ricorda che abitiamo sopra un drago affacciato nel Mediterraneo. Un dragone muggente di fuoco e gas che il Boccaccio appellò Demogorgone dal volto terrifico. In poche parole un'enorme dorsale vulcanica derivata dall'incontro tra due placche ciclopiche di crosta terrestre, quella africana e quella euroasiatica.
La mano pesante del Fato distesa sull'Abruzzo ci ricorda che abitiamo sopra un drago affacciato nel Mediterraneo. Un dragone muggente di fuoco e gas che il Boccaccio appellò Demogorgone dal volto terrifico. In poche parole un'enorme dorsale vulcanica derivata dall'incontro tra due placche ciclopiche di crosta terrestre, quella africana e quella euroasiatica. Per spiegarcelo, gli studiosi disegnano cartine colorate e predittive e tracciano una grande curva sismica che nasce dall'Etna e avvolge l'Italia fino alla corona delle Alpi in una figura geometrica a metà tra l'ellissi e il fallo eretto. Noi abitiamo lì dentro, come i nostri progenitori, sottoposti alle scrollate del mantello terrestre adagiato sulle fiamme sotterranee che calpestiamo ogni giorno. La densità vulcanica italiana dovrebbe rammentarci ogni giorno della nostra condizione di potenziali errabondi per sfuggire terremoti e sbuffi di fuoco.
Gli abruzzesi in particolare, così simili ai loro progenitori Mar-Sicani alteri e silenziosi, sono il prodotto etnico di un mistero legato alle catastrofi creatrici della terra italica. Sono i discendenti delle Primavere sacre preistoriche, riti di passaggio all'età adulta e d'ingresso nelle tribù di giovani civilizzatori in partenza dalla casa paterna verso nuove terre. L'Italia nasce così, nasce con lo sciame di antiche tribù pastorali e montanare partite in primavera dalla Sabina (ombelico d'Italia) per fondare nuove città-famiglia, sotto la protezione dei Numi primigeni rappresentati sotto forma di animale totemico. I Marsi hanno l'orso, ancora simbolo della regione abruzzese, i Piceni il picchio (picus), gli Hirpini il lupo e così via. Questi sciami primaverili erano dovuti all'esigenza di regolare il sovrappopolamento, ma nell'essenza erano centrati su un ricordo lontanissimo. Il ricordo di quando gli aborigeni italici diventarono ab-errigeni, cioè coloro che errano per salvarsi dalla mano fatale abbattutasi ieri a L'Aquila. Le grandi migrazioni mediterranee verso oriente dei civilizzatori italici – come un volo d'api destinate a novelli alveari, o come i semi del grande fallo disegnato dai vulcanologi – e i grandi ritorni esemplificati dal racconto degli eroi omerici sbarcati sulle nostre coste ci ricordano un destino nazionale di fuoco. A primavera il mito originario si ripete come rito festoso o si riattualizza con le fattezze di una nuova catastrofe. Da sempre.
A proposito di simboli e segni parlanti. L'Aquila è città regale fin dal nome che evoca l'uccello giovio, città sveva e romana. Il paese che più ha pagato la scossa del drago è la vicina Paganica. Un amico gentile ci ricorda che fra le diverse ipotesi degli storici sulle origini di Paganica ce n'è una fondata sul rinvenimento nell'agro paganichese di un'iscrizione votiva offerta per placare un nume: “JOVI PAGANICO SACRUM”. Sacro al Giove paganico, supremo dio del villaggio (pagus). Quasi che gli antichi conoscessero un segreto di vita e di morte collegato alla necessità di venerare la causa della propria incombente sciagura. Notevole anche che un ricercatore, giorni fa, avesse previsto l'evento infausto rilevando la concentrazione di un gas vulcanico sotterraneo chiamato radon non lontano dalle zone oggi ridotte a macerie. Il caso non esiste e il radon è lo stesso gas inalato dalla Sibilla di Delfi che vaticina trionfi e cadute, migrazioni e ritorni, per conto di Apollo (prima di lei se ne incaricavano Gea e Themis, figure della Terra).
Sempre il radon è il complemento dell'oracolo stanziato sopra Terracina, nel Lazio, dov'è il santuario di un Giove fanciullo molto simile al Giove/Vulcano laziale del Monte Cavo le cui pendici ancora sono percorse dal medesimo soffio. Cosa ci dice tutto questo? Certo meno di quanto gli antichi potevano percepire, mentre costruivano leggende e consuetudini millenarie interpretando la manifestazione di forze divine, avvolgendole in metafore accessibili, se pure mai esaurite dalla lettera. Oggi nel cataclisma abruzzese, non il primo né l'ultimo, rileggiamo la filogenesi dell'Italia e la fierezza del suo ricostruirsi. I Marsi abruzzesi, al riguardo, sono campioni di muscolatura e volontà. La loro Primavera sacra non finisce qui.
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