L'esempio di Bisaccia e gli errori architettonici possibili

Consigli utili per evitare di ricostruire l'Abruzzo come se fosse l'Irpinia

Camillo Langone

No, l’Irpinia no! L’altra notte mi sono svegliato di soprassalto, ero spaventato e sudato: ho immaginato che per l’amato Abruzzo si profilasse una ricostruzione in stile Irpinia e non poteva esserci incubo peggiore. Siete mai stati a Bisaccia? Andateci. E’ un paese che fa parte della provincia di Avellino, quindi Campania, anche se a me sembra Lucania dal freddo che fa e dal vento che tira.

    No, l’Irpinia no! L’altra notte mi sono svegliato di soprassalto, ero spaventato e sudato: ho immaginato che per l’amato Abruzzo si profilasse una ricostruzione in stile Irpinia e non poteva esserci incubo peggiore. Siete mai stati a Bisaccia? Andateci. E’ un paese che fa parte della provincia di Avellino, quindi Campania, anche se a me sembra Lucania dal freddo che fa e dal vento che tira. Ha dato i natali a due personaggi, uno che la ricostruzione l’ha fatta e uno che l’ha descritta. Il primo è l’architetto Aldo Loris Rossi. Ve lo ricordate? Quando si discuteva del piano-casa era in prima fila tra i plaudentes. Per carità di patria feci finta di non vederlo e non ne scrissi, però pensai: se un provvedimento piace a lui deve nascondere qualche magagna. Il secondo personaggio è lo scrittore Franco Arminio, il bardo triste dell’Alta Irpinia, e come potrebbe essere allegro uno che vive in un “blob urbanistico” fra le “opere oscene che l’architetto Aldo Loris Rossi ha piazzato a Bisaccia nuova”.

       

    Chi ha visto la chiesa di Bisaccia non se la dimenticherà per tutta la vita, “una chiesa cui si potrebbero applicare dei potenti motori per favorirne il decollo verticale e dunque il ritorno alla strana galassia da cui pare giunta, essendo tale e quale un’astronave”, ha scritto un altro autore campano, Francesco Durante, in un libro intitolato “Scuorno” ovvero “vergogna”, il sentimento che dovrebbe invadere chi ha disegnato approvato finanziato un simile spavento. “Io quando muoio non voglio essere portato in questa chiesa” dice Arminio, terrorizzato dalla prospettiva. E non mi dilungo sugli altri edifici realizzati dal diabolus loci, tutti ambiziosamente “polifunzionali”, come da retorica architettese, ma che poi faticano ad assolvere una funzione sola. Chi conosce la neolingua orwelliana comprende subito l’irragionevolezza dell’architettura che si dice razionalista, la disorganicità degli architetti che si definiscono organici, eccetera.

       

    L’Abruzzo non deve cadere nelle mani di questa gente. Non deve subire un secondo terremoto, il Richter cinque punto otto dello sradicamento formale e spirituale. Niente Rossi, niente Portoghesi, niente Botta e soprattutto niente Libeskind, un altro devastatore di panorami e di bilanci, però su scala planetaria, che Moratti o Formigoni o Ligresti (ammesso non siano sinonimi) ancora vorrebbero a Milano perché non sanno quello che fanno. John Silber nel suo “Architetture dell’assurdo” (Lindau) racconta la grottesca presunzione e l’insufficienza tecnica delle archistar più adulate. Gli edifici di Frank Gehry in cui piove dentro e i grattacieli di Libeskind, i più ambiziosi dei quali, da erigersi sull’area del World Trade Center, sono stati bocciati dalle autorità newyorkesi (meno provinciali e intellettualmente ricattabili di quelle milanesi) per via dei costi folli e della fragilità strutturale. Qualora simili individui si dovessero spingere oltre Tagliacozzo bisognerà lanciargli addosso il mammut del Museo Nazionale, quattro metri e mezzo di elefante autoctono abruzzese, con una zanna che non finisce più. Ma poi, che fare? Templi e palazzi del centro storico vanno ricostruiti com’erano dov’erano, coi modi che hanno salvato l’anima di Venezia (Fenice), di Noto (Cattedrale) e soprattutto del Friuli, che nel ’76 fu colpito ancor più severamente di quanto sia stato l’Abruzzo oggi. Sarà da tralasciare solo la riedificazione dell’hotel Duca degli Abruzzi, un canchero piazzato nel cuore della città quando Bruno Vespa era giovane, miseramente crollato con tutto il suo cemento non abbastanza armato.

       

    Di nuovi volumi bisogna invece parlare nelle periferie brutte e cattive, sfasciate, più che dal sisma, da costruttori rapaci e professionisti compiacenti (dovrebbero tutti prendere esempio dall’ingegner Di Geso, che a Trani imponeva la propria presenza al momento di ogni gettata, affinché a nessun disgraziato venisse in mente di trasformare il cemento in sabbia). Non sono molti coloro che si meritano, oggi in Italia, di lavorare in una città che pullulò di umanisti e di santi. Sicuramente l’urbanista Marco Romano che pensa le città come opere d’arte, ognuna con “un proprio riconoscibile stile”, in cui centro e periferie sono unite da una sequenza di temi collettivi, simboli capaci di trasformare in cittadini gli indigeni più nichilisti e gli immigrati più riottosi. E gli architetti? Mi sbilancio con qualche nome, persone che mi sembrano capaci di rispettare i luoghi con volumi, colori e materiali congrui: il lucchese Pietro Carlo Pellegrini, pratico della zona essendosi laureato a Pescara, poi Adolfo Natalini e Massimo Carmassi, toscani pure loro, forse Flavio Bruna e Paolo Mellano, forse Pietro Pagliardini. O loro, o l’Irpinia. 

    • Camillo Langone
    • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).