Fronte del sisma

Pastori, detenuti e storie non catalogabili di un lungo sciame di scosse

Toni Capuozzo

Questa mattina era difficile trovare i quotidiani, specie nei paesi. Ma da quelli intravvisti non mi è sfuggita la ripetizione di quella fotografia con la donna vestita di rosso, quasi come l'immagine di quel film di Spielberg che in un quadro bianco, nero e grigio, evidenziava il colore di un cappottino, come un destino. Il fatto è che nonostante noi cronisti si faccia un gran lavoro di catalogazione delle storie e gli esperti anche di più, poi, alla fine quello che affascina e spaventa di più è il caso che governa i destini personali.

    L'Aquila. Questa mattina era difficile trovare i quotidiani, specie nei paesi. Ma da quelli intravvisti non mi è sfuggita la ripetizione di quella fotografia con la donna vestita di rosso, quasi come l'immagine di quel film di Spielberg che in un quadro bianco, nero e grigio, evidenziava il colore di un cappottino, come un destino. Il fatto è che nonostante noi cronisti si faccia un gran lavoro di catalogazione delle storie e gli esperti anche di più, poi, alla fine quello che affascina e spaventa di più è il caso che governa i destini personali: la direzione di fuga, la storia della casa in cui ti trovavi, la sorte dei tuoi vicini, la felice prontezza di riflessi e qualche volta invece la felice lentezza che porta a riaffacciarsi all'aria quando il cornicione è già caduto: e la natura del terreno che fa ingobbire una casa e ne rispetta un'altra poco lontano, e il capriccio del destino nelle comunità: cosa avrà portato l'uno a scegliere una stanza piuttosto che un'altra, all'inizio dell'anno accademico?

    Ho parlato con molte persone sulla questione della previsione del sisma. Alcuni avevano le valige già pronte, altri sostengono adesso che “sentivano” che sarebbe successo qualcosa, i bambini nelle scuole erano stati addestrati ad evacuare l'edificio con ordine e sveltezza. Ho capito che alcuni si attaccano, qui, all'ipotesi dell'allarme ignorato perché la polemica aiuta a sopravvivere, a darsi una ragione. Ma anche perché ci si fa accarezzare dall'idea che la scienza possa – non possa non potere – essere onniveggente e onnipotente, che si possa vivere in un mondo perfetto e ideale, con una fiducia che sostituisce alla forza rassegnata del fatalismo, la forza incoraggiante di una fede illuminista: si può tutto, e piuttosto subito. Aiuta a non sentirsi in balia, e traditi dai fratelli uomini invece che da madre terra. Ma non sono così certo che le polemiche, più lontano, quando non trovano spiegazione nella politica, non abbiano anche il colore delle concorrenze professionali, della seriosità della scienza pacatamente certe davanti alla sperimentazione empirica di un solitario che viene inevitabilmente preso per stregone.

    Però mi sono occupato d'altro, oggi. Mi ha colpito che alcune delle vittime fossero stranieri, vuoi russi, vuoi rumeni, vuoi altro. Una decina, mi pare, come a dire il 5 per cento delle vittime. Che è più o meno la percentuale dell'immigrazione in queste zone, come se il terremoto avesse equamente rispettato l'identità di una comunità, le sue sfaccettature. Naturalmente chi non possiede alcunché perde di meno. I rumeni che ho visto partire, stamane, alla volta della Romania perdevano un posto da badante, o da muratore, ma non una casa e non beni importanti. Ne ho incontrato, o meglio ho cercato uno che restava, un pastore che avevo visto da lontano nei campi. Parlava un italiano difficile, e mi ha spiegato a gesti cos'è un terremoto vissuto nei campi, all'aperto, e come reagiscono le pecore (fuggono, come noi). E mi sono accontentato di questa breve chiacchierata, perché mi sembrava abbastanza che nel vecchio Abruzzo delle transumanze il pastore adesso fosse romeno. Poi mi sono occupato di altri ultimi, i detenuti, e le loro guardie, del carcere delle Costarelle.

    Sono sempre stato convinto che le carceri siano un metro della civiltà di un paese, e a maggior ragione che questo sia vero in un'emergenza. Mi è andata male, perché le due violente scosse del mattino mi hanno colto mentre ero nell'ufficio del direttore, e mi sono sentito in prigione. Il direttore ha fatto due telefonate mentre ci guardavamo in faccia pallidi, respirando paura. La prima: “Fuori, tutti, nel cortile”. La seconda, a casa: “Tutti bene?”. A ogni scossa portano i detenuti nei due cortili, quelli sottoposti a rigide misure di sorveglianza in uno, quelli comuni in un altro.

    Ovvio che sentire il fragore del terremoto in gabbia dev'essere tremendo, e dev'essere duro, per le guardie, non scapparsene. Ho chiesto se ci fossero già degli sciacalli incarcerati, e se dovessero essere protetti, come stupratori di una vittima malata, dagli altri detenuti. La risposta è stata vaga. Ma ho capito che passano la notte all'aperto, e che le misure di sorveglianza, pur non allentate, non sono diventate disumane. Mi sono sentito grato, e per bene. Poi ho chiesto chi ci fosse, in carcere, e ho saputo che c'è Nadia Lioce. Allora ho capito che un terremoto mette a nudo tutte le nostre fragilità, e la difficoltà a essere solidali, insieme, con gli studenti e i bambini sotto le macerie, con gli anziani nelle tendopoli, con gli immigrati senza tenda, con le vittime innocenti e quelle reprobe. (nella foto Ansa: I segni del terremoto nella chiesa di Paganica, L'Aquila)