Perché il farmaco migliore per guarire dallo stress da terremoto è la rilettura di Seneca. Parla Risé
"Alcuni si sono messi a correre qua e la come forsennati e storditi per effetto della paura che scuote le menti quand'è personale e moderata. Ma quando il terrore è generale, quando crollano le città, i popoli sono schiacciati, la terra è scossa, che cosa c'è da meravigliarsi che gli animi, in preda al dolore e alla paura, siano smarriti… Certo nessuno prova un grave spavento senza pregiudicare un po' la sua sanità mentale, e chi ha paura è simile a un pazzo”.
Alcuni si sono messi a correre qua e la come forsennati e storditi per effetto della paura che scuote le menti quand'è personale e moderata. Ma quando il terrore è generale, quando crollano le città, i popoli sono schiacciati, la terra è scossa, che cosa c'è da meravigliarsi che gli animi, in preda al dolore e alla paura, siano smarriti… Certo nessuno prova un grave spavento senza pregiudicare un po' la sua sanità mentale, e chi ha paura è simile a un pazzo”. Citazione canonica, e del resto Seneca fu il primo a ragionare sulle conseguenze psicologiche dello spavento da terremoto, a mettere insieme la causa con l'effetto con i suoi risvolti pubblici e sociali, facendo il resoconto del terremoto del 62 d.C. in Campania nelle sue “Questioni naturali”. L'antico filosofo aveva in realtà per obiettivo quello di stigmatizzare tale primitivo impazzimento umano, causato dall'ignoranza (“per noi che ignoriamo la verità, tutti i fatti sono più terribili soprattutto quelli la cui rarità accresce la nostra paura”), e offrire al contrario, come unico e salutare rimedio quello della conoscenza che sola può liberare l'uomo dalle sue paure ancestrali, quelle legate ai fenomeni naturali incontrollabili. Fosse vero, al popolino mediamente incolto del terzo millennio dovrebbero bastare le spiegazioni televisive di Mario Tozzi, il geologo col martello di Raitre, su come e perché avvengono i terremoti per fugare tutte le paure.
Invece no. Passati venti secoli da Seneca e passati in tv migliaia di documentari, non molto è cambiato nella percezione umana e nelle dinamiche psicologiche messe in atto di fronte a catastrofi come quella dell'Abruzzo. E basterebbero, non bastassero le testimonianze, alcuni frammenti d'immmagine visti in questi giorni in tv: quando lievi scosse avvertite durante una diretta o durante la ripresa di un cameraman avevano il potere di suscitare urla, terrore, fughe incontrollabili. Scene che non capita di vedere quasi mai nemmeno dagli scenari di guerra. C'è qualcosa di profondo e incontrollabile, di sedimentato e irredimibile, nel terrore, nel “timor” direbbe Seneca, scatenato da un terremoto. Del resto neppure un gran filosofo come Benedetto Croce riuscì mai ad affrancarsi dal ricordo sconvolgente del terremoto di Casamicciola, sull'isola di Ischia dove era in vacanza, nel quale a diciassette anni perse i genitori. Tanto da raccontarlo ancora in una intervista di oltre cinquant'anni dopo a Ugo Pirro, su Oggi, nel 1950. Don Benedetto ricorda la notte di spasimo, incastrato sotto le macerie, senza poter soccorrere il padre ferito a pochi passi da lui e per distrarsi cercava di rammentare la descrizione del terremoto di Napoli nella “Storia del reame di Napoli”. Al di là della tragedia, della perdita materiale, il terremoto scatena qualcosa che ha a che vedere con la psicologia profonda, con i meccanismi simbolici e non controllabili della natura umana. “Innanzitutto c'è la perdita della casa, che è un'immagine del proprio corpo e dunque è una espressione della propria personalità”, riflette a voce alta col Foglio Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore.
“Questa è la prima immagine simbolica che va in frantunmi. E noi sappiamo che i sogni legati alla casa sono sempre sogni che hanno a che fare con la formazione della personalità. Anche nei bambini – i bambini che vediamo in queste ore particolarmente smarriti, e dunque è giusto che ci sia una prima assistenza psicologica per loro – il disegno della casa è una delle prime forme espressive, e spesso è una casa antropomofra, una casa-faccia. Perdere la casa è come perdere la propria immagine”. A questo va aggiunto, secondo Risé, il fatto che il terremoto è una catastrofe collettiva, crolla la mia casa ma anche quella del vicino e la chiesa che è di tutti, quindi il rischio di perdere la propria personalità individuale si amplifica nella perdita possibile della comunità. “C'è poi un altro elemento simbolico, che segna nel profondo l'esperienza del terremoto: ed è la terra. La superficie terrestre è il simbolo stesso della realtà. Della sua solidità in quanto tale. Qui letteralmente si frantuma la sua stessa consistenza”.
E questo conduce, secondo Risé a un terzo livello: “L'imprevedibilità, l'incontrollabilità del fenomeno naturale. E' sempre stato così, nella storia umana. Ma oggi, la nostra civiltà tecnologica e la nostra falsa cultura scientista tendono a nascondere, in condizioni normali, il fatto che la realtà in cui sei posto è incontrollabile. Il terremoto genera un panico superiore a quello scatenato da altre esperienze naturali perché rimette l'uomo di fronte a questa evidenza di incontrollabilità”. Torna dunque ancora, anche se interpretata secondo gli strumenti della psicologia, la dimensione antropologica in cui il terremoto diviene il segno-limite della possibilità di controllo dell'uomo sul mondo. Mircea Eliade riconosceva il terremoto tra le ierofanie anche bibliche, mentre il terremoto di Lisbona del 1755, servì a Voltaire come punta di lancia del suo ateismo. E monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, ha dovuto rispolverare la teodicea per rassicurare i fedeli che Dio non è un “Grande Burattinaio”.
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