Anticipazione dal Foglio del 12 aprile

C'era tutto lo stato, ma la cerimonia d'Abruzzo è riuscita a restare intima

Toni Capuozzo

Non sono tipo da funerali, io. Mi manca la voce adatta, la faccia di circostanza. Con gli anni, faccio fatica a resistere alla commozione, come succede ai vecchi. E così sono andato malvolentieri a Coppito, nella grande piazza d'armi della Scuola della Guardia di Finanza.

Leggi: Requiem per l'Abruzzo

    L'Aquila. Non sono tipo da funerali, io. Mi manca la voce adatta, la faccia di circostanza. Con gli anni, faccio fatica a resistere alla commozione, come succede ai vecchi. E così sono andato malvolentieri a Coppito, nella grande piazza d'armi della Scuola della Guardia di Finanza. So che i rituali aiutano a mettere un punto fermo, a ritrovare un ordine nelle cose, nelle vite e nelle morti quando quest'ordine è sconvolto. Ma stavolta, forse, è stato un po' diverso. Forse quella distesa di bare, tra le quali le uniche che sembravano mantenere una loro individualità irripetibile erano quelle bianche dei bambini. Forse quel coro silenzioso di familiari. Forse il fatto che lo stato fosse tutto lì, come una cosa tangibile, ma quasi in punta di piedi, un po' a lato, e fossero uno stato, un governo, un'opposizione, e istituzioni locali che finora hanno fatto alacremente la loro parte. Forse il fatto che l'arcivescovo abbia chiamato per nome alcune delle vittime.

    Sta di fatto che la cerimonia funebre, nonostante fosse quasi schiacciata da quei numeri troppo grandi, è riuscita a mantenere un suo carattere intimo, nel quale la solennità non sopraffaceva il carattere provinciale, e spesso campestre di un addio difficile.
    Ho girato alla larga dai feretri bianchi, e distolto lo sguardo dai peluche e dai giocattoli, ma ho avuto un nodo in gola quando ho visto stretti nelle mani come un attrezzo da lavoro un mazzo di fiori che non aveva nulla dell'ufficialità delle corone, ma che era stato composto a fatica, in una città in cui non si trovano neanche le sigarette. Mi sono vergognato dei miei abiti ormai veterani di fango e polvere, quando ho visto gente che non ha niente vestita come si deve a un funerale, con l'abito migliore, quello dell'addio.
    E a conferire questo carattere intimo era, ancora più che il dolore rappreso dei familiari, la distesa di persone qualunque, un popolo di sopravvissuti, ma non piegato. Ho seguito le omelie, e i cori, e malvolentieri la chitarra che invece forse non sarebbe dispiaciuta ai tanti giovani racchiusi in quei feretri, ma ho trovato che il momento più vero, più alto, più insopportabile della cerimonia fosse quella benedizione dei feretri, interminabile, che accomunava vite tanto diverse. Qualcuno, al microfono, ha ricordato quella di Marco, il vigile del fuoco venuto da Bergamo a morire qui. Avrebbero potuto ricordare qualunque di quelle vite, da Luca il ragazzo padre di vent'anni al giocatore di rugby, dal bambino albanese alle coppie morte abbracciate. Perché un terremoto è come un ponte di San Luis Rey, che crolla e fa incrociare i destini più diversi, come in una Pompei che ferma tutto, lo inchioda in pochi secondi definitivi.

    Pregare nella loro fede
    Come se fosse uno spaccato (posso usarla, qui, questa parola?) di una società, tra le duecento e dieci bare ce n'erano sei di vite musulmane. Pregarle nella loro fede è stata la miglior risposta a quei siti fondamentalisti che hanno festeggiato il sisma come una vendetta di Dio.
    Alla fine non è stata una di quelle cerimonie che non vedi l'ora finiscano e anzi la gente indugiava a prestarsi al congedo ultimo, incerta sul piazzale, e aiutata dalla difficoltà a districarsi di tanti cortei funebri diversi, in quell'ingorgo di dolore. Ma quando ho visto un gruppetto di suore, nella fiumana che si allontanava, sorridere, non ho potuto fare a meno di ringraziarle, usando un termine che mi è improprio: grazie per la vostra letizia, sobria e per niente cardinalizia. Perché non avevo altre parole per esprimere riconoscenza per avermi risparmiato un addio di retorica e pompa, di dolore sbandierato ed eterne promesse.

    Domani è Pasqua. Non dico resurrezione, mi accontento di rinascita, ecco i miei auguri, grato a questi abruzzesi che avranno pure sfornato D'Annunzio ma anche John Fante, e non applaudono ai funerali.

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