Si sono svolti i funerali di Stato, è lutto nazionale

Nell'antologia delle vite perdute la storia più incredibile è quella di un cieco

Toni Capuozzo

L'incontro più lungimirante che ho avuto oggi è stato quello con un cieco, Alarico Bernardi, de L'Aquila (nella foto della Croce Rossa Italiana). Ho ascoltato senza fare domande il suo racconto di quella notte in cui il piccolo mondo ai piedi del Gran Sasso si è capovolto, immerso nel buio, e si sono trovati tutti non vedenti, o non riuscivano a credere, ad afferrare, a capire quello che vedevano. Ed è stato lui, Alarico, a tranquillizzare la sua compagna, a dialogare con il suo cane guida, a trovare una via d'uscita, come se la sua diversità, improvvisamente, nel mondo rovesciato, fosse diventata un vantaggio.

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    L'Aquila. L'incontro più lungimirante che ho avuto oggi è stato quello con un cieco, Alarico Bernardi, de L'Aquila (nella foto della Croce Rossa Italiana). Ho ascoltato senza fare domande il suo racconto di quella notte in cui il piccolo mondo ai piedi del Gran Sasso si è capovolto, immerso nel buio, e si sono trovati tutti non vedenti, o non riuscivano a credere, ad afferrare, a capire quello che vedevano. Ed è stato lui, Alarico, a tranquillizzare la sua compagna, a dialogare con il suo cane guida, a trovare una via d'uscita, come se la sua diversità, improvvisamente, nel mondo rovesciato, fosse diventata un vantaggio. Alla fine del suo racconto ho avuto un solo momento d'imbarazzo, quando ha chiesto alla sua compagna di andare a vedere, nell'automobile, se ci fosse ancora una copia di un suo libro di poesie, e non c'era.

    Capisci cosa vuol dire perdere tutto solo quando il tutto si fa tangibile, in un dettaglio minore, come in un libro (in quel momento ho avuto un immenso rispetto per tutti i libri con dedica che autori locali ti regalano in ogni occasione, e fai fatica a leggere, e accumuli distrattamente). Poi, nel giorno, ho lavorato poco, perché era stata una notte lunga, al seguito di una pattuglia antisciacallaggio dei carabinieri. Avevo deciso di seguire quella guidata da un capitano della compagnia locale, nel centro storico de L'Aquila, e così è stato un viaggio, più che a caccia di sciacalli, a caccia di ricordi, una specie di Via Crucis sostitutiva di quelli del Cristo Morto, che manifesti impietosamente invecchiati annunciano, nel cuore della città, per il Venerdì Santo. Sì, ho visto i controlli sulle persone, ma le viuzze del centro sono un deserto, che lascia spazio agli incontri con le sole memorie: “Questo era un buon ristorante…”, “qui abbiamo trovato morto un ragazzo di 16 anni”, “qui sono morti i genitori, coprendo con il loro corpo, e salvandolo, il figlio di sei anni”.

    Nei condomini di periferia, qualche luce accesa. L'hanno dimenticata al momento della fuga, o sono tornati ad accenderla, la luce, forse per vederla da lontano, o per scoraggiare malintenzionati, o come un segno di speranza, non lo so. Lavorando poco, ho più tempo per parlare a tempo perso, prigioniero dei miei ricordi che mi perseguitano come in un già visto, perché ero un giovane cittadino qualunque, nel Friuli del 1976. Meglio, ero un militante che nel terremoto si sciolse prima che la sua organizzazione lo facesse (chi ha dimestichezza con quei tempi ricorderà che al congresso di Rimini Adriano Sofri usò nel suo intervento di congedo la metafora del terremoto: bisogna abituarsi a convivere con il terremoto della vita, senza verità in tasca, disse. Più o meno, perché a Rimini non c'ero, e facevo il volontario tra la mia gente. Scrivemmo, disegnammo e stampammo un opuscolo che si intitolava così – “Vivere con il terremoto”– che serviva a spiegare, nella lingua locale, che cos'era una faglia, che cos'era lo sciame sismico, cosa era leggenda e cosa realtà, e come doveva essere una casa antisismica. Tutto nella convinzione che il solo modo di controllare, non di vincere la paura, fosse sapere e capire, e abituarsi a governare l'incertezza).

    Così, nelle chiacchiere tra Paganica e Onna, mi scappa di fare il reduce, e suggerisco poche cose. La prima è l'antropologia culturale che deve plasmare i soccorsi. Le tendopoli grandi sono più razionali, e più facili da organizzare. Ma servono interventi a pioggia nelle frazioni, in campagna: tende vicino a ogni casa, così che le persone non se ne sentano distaccate, e possano curare l'orto, e dare il cibo alle galline. Servono grandi mense, ma servono ancora di più bombole e fornelli a gas, così ognuno cucina come crede, a che ora crede, e si impegna a fare qualcosa. Gli abruzzesi assomigliano ai friulani: guai a farne degli assistiti. Serve abbattere presto le case a brandelli, e far le perizie sulle altre: non ci torneranno presto a dormire, ma possono entrarvi per una doccia, per cambiarsi d'abito, per riprendervi confidenza. Serve istruire tutti sui rischi di un'estate in tenda, sui possibili guai di tanta promiscuità forzata: la tendopoli non è un campeggio, e i bagni chimici hanno dei limiti.

    E poi servono idee forza, che danno forza. Non ci sono precedenti recenti di città distrutte e dunque L'Aquila fa caso a sé. Ma bisognerà stabilire delle priorità, e fare delle scelte. Da noi lo si fece. Donne e bambini, dopo il secondo terremoto di settembre, vennero mandati al mare. Si scelse di dare la priorità ai posti di lavoro. Poi si decise che le case venivano prima delle chiese, e i preti furono i primi a dirlo, nelle messe al campo. Ma quando i prefabbricati furono pronti, si ricostruirono chiese e monumenti come ricostruire un totem attorno a cui la tribù si riconoscesse, e nel caso del duomo di Venzone si numerarono le pietre a una a una come in un Lego gigantesco, e lo si rifece. Si scelse “com'era, dov'era”, con caparbia volontà di ritornare a essere quello che si era stati prima. Ma con una ambizione: essere meglio di prima, che il terremoto fosse almeno motore di sviluppo. Lo fu, si costruirono autostrade e nacquero università, e quella ricostruzione diventò un modello.

    Era la Prima repubblica, sì. Ho ancora il ricordo nitido della visita di Aldo Moro. Aveva un volto tragico che sembrava fatto per quella tragedia, senza finzioni di circostanza. Non ricordo abbia accarezzato un solo bambino, né si sia lasciato sfuggire un solo sorriso. Guardandolo da distante, non potei fare a meno di fantasticare su quel suo ciuffo bianco, che ricordava inevitabilmente le storie di tanti che erano usciti dalle macerie con i capelli grigi di polvere, e di quelli cui i capelli si erano ingrigiti di colpo per il dolore. In questi giorni, qui, è venuto più volte un altro premier, con uno stile affatto diverso: sorride spesso, ha un'espressione di serietà grave e insolita per lui quando parla del dramma, ma veste il maglione nero sotto la giacca, e indossa volentieri copricapi da soccorritore. Inspira, o vuole aspirare un ottimismo alacre. Per me non è un male, è solo il tempo che è passato, e il mondo che è cambiato.

    Ho più paura delle facce di circostanza, e mi dispongo malvolentieri a seguire i funerali di domani. Che per voi è oggi. Senza spocchia, ma con reducismo più fresco, avrei un solo suggerimento. Siccome i morti sono tanti, che qualcuno faccia quel che fece il New York Times dopo l'11 settembre. Una modesta antologia delle vite perdute, dallo studente israeliano alla coppia di genitori che hanno salvato il figlio, dalla famigliola albanese al vigile del fuoco bergamasco morto nei soccorsi, dai ragazzi della casa dello studente a quell'unico morto della scossa di assestamento più forte, che è stata l'unica vittima ad aver passato i suoi ultimi giorni nella paura, quasi consapevole del destino. Sarebbe un modo sobrio e duro, in mezzo alla retorica sovrabbondante e all'accanita ricerca di polemiche – certo, entrambe testimoniano che la vita continua, the show goes on – di ricordare quel che si perde, e quello che resta.

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