Il mistero del suicidio filosoficamente parlando

Ma quand'è esattamente che la morte è diventata affermazione della libertà?

Sergio Soave

Nella morte volontaria di Roberta Tatafiore, come in tutte le morti, c'è un mistero, che resta tale nonostante il meticoloso resoconto che l'autrice del gesto estremo ha voluto lasciare. Senza potere e neppure volere oltrepassare il velo della sua coscienza, ci si può invece interrogare sulla coscienza dei vivi, sulla loro affermazione della morte come libertà, che si oppone alla pietà e alla disperazione.

    Nella morte volontaria di Roberta Tatafiore, come in tutte le morti, c'è un mistero, che resta tale nonostante il meticoloso resoconto che l'autrice del gesto estremo ha voluto lasciare. Molti commentatori, da Simonetta Fiori ad Anna Bravo a tante altre, non hanno sentito il peso e la domanda di questo mistero, preferendo l'esaltazione di una “scelta estrema di libertà”, o il suicidio “libera morte” come “rivendicazione di possesso”. Nessuno può dire se queste letture corrispondono al sentimento più profondo che ha indotto la protagonista al suo epilogo. Oppure se anche in lei agisse la dissoluzione della speranza, quella disperazione, anch'essa misteriosa, alla quale la pietà attribuisce la scelta di morte volontaria.

    Senza potere e neppure volere oltrepassare il velo della sua coscienza, ci si può invece interrogare sulla coscienza dei vivi, sulla loro affermazione della morte come libertà, che si oppone alla pietà e alla disperazione. In questo c'è un segno su cui interrogarsi, sinceramente, senza alterigia che nessuno può decentemente esercitare di fronte alla fine di una vita. Se la morte, che ciascuno può scegliere, è libertà ne consegue che la vita, che nessuno ha scelto di vivere, è per questo una costrizione. Non è più un dono, della natura o del Creatore, ma una condizione coatta, che può essere accettata o respinta secondo la soddisfazione che se ne può o meno ricavare. C'è una differenza notevole dalla rivolta romantica del Werther, e persino dalla caduta nel “vizio assurdo” di Cesare Pavese quando non resse più la fatica del mestiere di vivere, per non parlare del senso lancinante e invincibile di impotenza sentito da Primo Levi di fronte al male che gli pareva sommergesse tutto. Senza mancare di rispetto né ai vivi né ai morti, si sente in questo superomismo, in questa estensione della libertà individuale al di là del tabù del dovere di vivere, una forma nuova e accecante di disperazione. Persino Herbert Marcuse, dopo aver negato tutti i presupposti metafisici dell'essere, postulava che l'unico dogma dal quale si potesse partire è che la vita è degna di essere vissuta. O che almeno può essere resa tale.

    La grande stagione della destrutturazione del pensiero organico che è stata chiamata contestazione, pare che alla fine abbia distrutto anche quest'ultimo dogma laico, abolendo così la speranza, rendendo la disperazione norma comune. Può apparire scolastico, e probabilmente lo è, replicare che la libertà è intrinsecamente legata alla vita, perché questo presuppone la comune convinzione della dignità della persona, che è concetto ripetuto da tutti come una banalità, almeno in Occidente, ma che sta logorando gradualmente il suo significato profondo. Per questa ragione, per il disperdersi dei punti di riferimento che una volta si sarebbero detti umani e razionali, di fronte a questa esibizione disperata di libertà, che è libertà di disperazione e quindi di morte, non c'è risposta, al di fuori della nuda pietà, che non riesce neppure a diventare compassione perché non trova nulla da compartire, se non il dolore.