Uomini in rivolta
Prevedere è arte che perlopiù porta alla figuraccia. E immaginare che in Italia il ricorso alla violenza nei conflitti sociali sarà più basso di altri paesi in Europa è un vero e proprio azzardo. I meccanismi della follia o anche soltanto della rabbia umana sono complicati. Pretendere di leggerli distesamente è presunzione. Eppure vi sono condizioni per pensare che da noi le cose saranno più tranquille che in altri luoghi e soprattutto che in altri tempi.
Prevedere è arte che perlopiù porta alla figuraccia. E immaginare che in Italia il ricorso alla violenza nei conflitti sociali sarà più basso di altri paesi in Europa è un vero e proprio azzardo. I meccanismi della follia o anche soltanto della rabbia umana sono complicati. Pretendere di leggerli distesamente è presunzione. Eppure vi sono condizioni per pensare che da noi le cose saranno più tranquille che in altri luoghi e soprattutto che in altri tempi. Dietro gli atti di violenza politica (a differenza di quelli istintivi o immeditati) c'è sempre un'elaborazione culturale per quanto primitiva. Non si picchia, non si sequestra – almeno in modo organizzato – se non si ha una visione che giustifichi questa violenza.
L'Italia negli anni Settanta è stato tra i paesi europei più violenti: ma dietro a ogni componente di questa violenza, c'erano elaborazioni culturali di lungo periodo. C'era il secchismo, l'idea della rivoluzione armata, il mito della guerra partigiana che aveva ripreso fiato dopo Che Guevara, c'era l'intransigenza dell'azionismo più radicale che apriva la via all'“antifascismo militante”, c'era l'integrismo cattolico che spingeva a realizzare la giustizia di Dio in Terra, c'era l'anarcosindacalismo dei Quaderni rossi che indicava all'operaio-massa la via di rivolte che avrebbero prodotto sicuro progresso tecnologico. Si può dire che abbiamo raccolto sino a pochi mesi fa i frutti violenti di queste radici culturali: dagli ultimi eredi delle Brigate rosse ai blocchi stradali degli operai in sciopero fino ai piccolissimi sussulti studenteschi contro i provvedimenti Gelmini.
Ora mentre nel resto d'Europa, si vedono emergere forme organiche di violenza, in Italia tutto sommato, per adesso, non si notano fenomeni di grande portata. Dietro a questa dinamica c'è anche una questione culturale. In Inghilterra una certa tensione anarchicheggiante è sempre vissuta nelle Trade Union ed è stata trattenuta finché è stata forte l'egemonia del New labour. In Francia il mito trotzkista della giusta rivoluzione ha fornito una base per ridare aggressività ai movimenti sociali. In Grecia la presa di una cultura stalinista sulla sinistra ha basi molto etniche che non sono ancora state superate. In Germania dove la sinistra radicale, la Linke, è un impasto tra sinistra della Spd e nipotini della Stasi, tutto si svolge con maggiore ordine. In Italia, invece, tutti i segmenti del radicalismo di sinistra sono andati in confusione e la sinistra radicale è un po' nelle condizioni degli “intergruppi”, di quando con difficoltà si coordinavano Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia, Movimento studentesco a metà degli anni Settanta.
Il comparto “secchiano” della violenza è largamente esaurito. Vedere gli eredi di Mao Tse Tung fare i principali sostenitori finanziari dell'imperialismo americano scoraggia anche gli animi più temprati. La campagna (“grande base rossa”, potere che nasce dalla canna del fucile) ha circondato la città. E poi? Poi, s'è messa a comprarle tutti i dollari. Anche peggio dell'ammainarsi della bandiera rossa al Cremlino. L'azionismo più radicale che giustificò alcune delle violenze più ributtanti degli anni Settanta è tutto concentrato ora sul potere salvifico dei pm, ed è difficile osannare una toga e lanciare una molotov allo stesso tempo. Alcuni grandi vecchi straparlanti, tipo Eugenio Scalfari e Nicola Tranfaglia, vorrebbero rilanciare l'antifascismo come antiberlusconismo. Per fortuna c'è Rossana Rossanda, non difficile da convincere ad assumere posizioni estremistiche, purché, però, abbiano un minimo di eleganza. C'è chi può pensare che qualche incitamento alla violenza potrebbe derivare dai predicatori di odio tipo Di Pietro, Beppe Grillo o Santoro: ma per giustificare quel duro strappo anche esistenziale che è il ricorso a un programmato atto di violenza servono “concetti”, non “rutti”. Quanto all'integrismo cattolico, grande fucina di estremismo violento negli anni Sessanta, ora è tutto teso a giustificare la secolarizzazione della società, aborti, preservativi, e così via. E non è semplice mobilitare insieme per “la società veramente giusta”, alla quale si è disponibili anche a sacrificare la vita, e per la dittatura dei desideri.
Svuotata anche la protesta studentesca apparsa rapidamente non come la rivolta del “sapere” contro il ciclo capitalistico, ma un movimento di giovanotti che vogliono non pagare le tasse e andare al cinema gratis. Quella che ha retto più a lungo è stata una certa durezza anarcosindacalistica. Anche in questo caso la delusione è innanzi tutto culturale, sentirsi spiegare dai Rinaldini e dai loro economisti tipo Leon che il capitale controllava tutto, che si era alle soglie di un'ondata di inflazione per mangiarsi i salari, e poi assistere alla crisi di Wall Street, ha provocato una profonda crisi di fiducia nelle capacità culturali dei propri dirigenti. Allora è meglio cercare di cavarsela con i partecipativi della Cisl, allora è meglio studiare le soluzioni discutendo con l'associazione provinciale degli industriali, ragionare sul comunitarismo leghista. Piuttosto che inseguire questi previsori sballati.
Forse la situazione è dunque matura per liberarsi da alcune correnti endemiche portatrici di violenza nella storia e nella società italiana. Si rifletta però sul fatto che la matrice di ogni processo è culturale: e se non darai ai giovani, ai lavoratori una cultura diversa che consenta di partecipare e realizzarsi, seppure relativamente come è nella condizione umana, altre culture portatrici di violenza si riaffacceranno sulla scena politica e sociale.
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