La morte nella politica
Il problema dei modi di morire, più ancora che della morte, è sempre più all'ordine del giorno – politico, emotivo, intellettuale – di questo tempo. Un tempo che ormai sembra capace di provocare e accogliere soprattutto riflessioni sulla fine, in senso reale o metaforico, come se soltanto questa fosse la “vera” posta in gioco, quella che riassume e dà un senso a tutti i giochi giocati fino a oggi.
Il problema dei modi di morire, più ancora che della morte, è sempre più all'ordine del giorno – politico, emotivo, intellettuale – di questo tempo. Un tempo che ormai sembra capace di provocare e accogliere soprattutto riflessioni sulla fine, in senso reale o metaforico, come se soltanto questa fosse la “vera” posta in gioco, quella che riassume e dà un senso a tutti i giochi giocati fino a oggi. E' come se nelle decisioni di fine vita fosse racchiusa la pietra filosofale che in altre epoche era stata cercata nell'ambizione di cambiare il mondo, di vivere il proprio tempo, le relazioni, la politica in modo pieno e non più alienato.
Non basta, a spiegare questo dilagante dibattito attorno alla morte desiderabile, la sola occasione del caso Englaro o la feroce discussione politica sul testamento biologico. Non basta, se non altro perché quello appena descritto non è un fenomeno soltanto italiano. Il problema non è tanto di ricostruire l'origine delle invasioni barbariche che oggi propongono l'eutanasia come obiettivo e la libera morte come ultima e decisiva conquista personale e politica. Si tratta semmai di capire come mai il grande, nobile e fondamentale tema della morte si stia divorando tutto il resto.
C'è un fatto. A dettare l'ordine del giorno è, ancora una volta, la generazione che della visibilità e dell'attribuzione di senso politico al proprio privato ha fatto un marchio di fabbrica. E', per ovvio contrappasso, quella stessa generazione dei giovani e dei ragazzini che, nel pieno della rivolta sessantottina, non prendeva mai in considerazione il dolore privato, nemmeno il proprio. “L'immaginazione al potere si ferma spesso alle porte del dolore”, ha scritto giustamente Anna Bravo in “A colpi di cuore”, il suo libro sul Sessantotto: il dolore riconosciuto e ammesso era sempre quello dei poveri del terzo mondo, degli ultimi, della classe operaia, delle vittime dell'oppressione, dello sfruttamento, del razzismo. Il dolore e la morte potevano essere considerati soltanto nella sfera strettamente legata alla politica e alla lotta di classe. Ancora nel 1973 (è sempre Anna Bravo a ricordarlo), quando Rossana Rossanda recensisce sul Manifesto “Sussurri e grida” di Bergman, “e osa parlare dell'uomo appeso fra vita e morte, del ‘residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, del limite oscuro che incontra un'emancipazione politica', al giornale arrivano pacchi di lettere irate”. Per uscire da quell'equivoco censorio e da quella gabbia, il femminismo è stato lo spartiacque fondamentale. Dopo il femminismo, la valorizzazione e la visibilità di un privato che fino a quel punto era negato e disprezzato è diventato “il” tema politico per quella generazione (come sia stato declinato e con quali risultati è un altro discorso).
E' la stessa generazione che già da un po' di tempo fa i propri, umanissimi conti con l'invecchiamento, la finitezza, con la malattia e con la morte. Ci fa i conti, ancora una volta, da par suo: mettendo il tema della fine al centro di tutto e come paradigma di tutto. A volte in modi che fanno pensare ai buchi neri di antimateria che tutto inghiottono e nulla restituiscono. Non restituiscono, soprattutto, quella parte di riflessione originale che, come scrive Ida Dominijanni nel suo pezzo sul Manifesto di ieri, il femminismo ha fatto sulla vuota retorica di una libertà che nega la dipendenza come fatto umano e ineliminabile: “Si nasce dipendenti, da una madre, e si muore dipendenti, da chi abbiamo intorno, e anche tutta la libertà della vita adulta, mi pare avessimo detto nel femminismo, non consiste tanto nell'emanciparci da queste dipendenze quanto nel riconoscerle, come la materia di cui noi e il nostro corpo siamo fatti”. Domenica scorsa era prevista, alla Casa internazionale delle donne a Roma, una discussione pubblica su un testo intitolato “Il coraggio di finire”, elaborato da Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini. Dieci donne impegnate nella politica della sinistra e nel femminismo, che si sono riunite, nel corso di un anno, ogni mercoledì.
La discussione pubblica è stata poi annullata, perché nel frattempo c'è stato il suicidio di Roberta Tatafiore, che di molte era amica. Un suicidio che è sembrato, in modo imprevedibile e crudo, quasi un voler prendere troppo alla lettera quel “coraggio di finire”. Il testo del “gruppo del mercoledì” prende le mosse dal ragionamento sulla fine della sinistra all'interno della più generale crisi della politica e finisce per virare sul tema della fine dei corpi. Così lo raccontano le dieci firmatarie: “E' accaduto uno scarto. Siamo ri-partite da quello che stava accadendo ad alcune di noi: l'invecchiamento, le malattie, la fine di persone care. Abbiamo tutte esperienza del peso e della sofferenza che può suscitare la fine della vita. E abbiamo bisogno di dare parola a questa esperienza. A cosa accade ai corpi nel morire. Forte bisogno, comune, anche se in modi e per motivi diversi. Ci siamo chieste se vi sono modi di accompagnare chi ci è caro, o di essere noi stesse accompagnate, ad ‘una buona fine'. Forse no. Ma anche se la fine non può essere buona, bisogna assumerla comunque. E' un modo di riconoscere la finitezza, il limite, l'usura del corpo”. E' soltanto l'inizio di una lunga riflessione (la si può leggere integralmente sul sito donnealtri.it) che, in un continuo gioco di rimandi e di analogie, dalla fine della vita torna alla fine delle forme e dei luoghi della politica, perché “la crisi della politica mima le crisi del corpo fisico”.
Il documento del gruppo del mercoledì ha il merito di esplicitare quel legame tra vicenda privata e riflessione politica che oggi si declina sul tema della fine, del congedo, della morte. E' un tema vecchio quanto il mondo, naturalmente, che però non soltanto gli antichi ma anche i nostri padri, e tutte le generazioni fino a ora, hanno sempre accompagnato a quello del lascito, del testamento, dell'eredità. Gli uomini e le donne che oggi si trovano a svolgere il tema della fine, la generazione dei giovani e dei ragazzini del Sessantotto, di eredità hanno soprattutto ragionato in termini ambientali, di risorse da preservare per figli e nipoti, di pianeta da salvare. Anche lì c'era (c'è tuttora, per qualcuno) l'occasione di un movimento e di una proposta politica collettiva. Ma l'eredità, nel senso antico e perenne, non è soltanto questo. E' la capacità di partire da sé per guardare fuori di sé, per capire che sarebbe triste, per coloro che volevano cambiare il mondo, lasciare a chi viene dopo qualcosa che assomiglia a una resa. Qualcosa che parla di morte perché non si sa più parlare della vita, delle sue fatiche e anche del suo dolore, che sono umani e comunque nostri. (foto di Tano D'Amico)
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