La teologia dei coleotteri
E' impossibile che un ateo erudito e un paleocristiano, incrociandosi, non si sorridano complici. La stessa febbre chiamata Dio li affratella in una comunità di destino. Nel caso di Corrado Augias e Vito Mancuso non si può dire che l'intesa produca espressioni identiche nella foto in bianco e nero sulla quarta di copertina del loro libro, scritto a quattro mani e con propositi agonistici medievalizzanti: “Disputa su Dio e dintorni”.
E' impossibile che un ateo erudito e un paleocristiano, incrociandosi, non si sorridano complici. La stessa febbre chiamata Dio li affratella in una comunità di destino. Nel caso di Corrado Augias e Vito Mancuso non si può dire che l'intesa produca espressioni identiche nella foto in bianco e nero sulla quarta di copertina del loro libro, scritto a quattro mani e con propositi agonistici medievalizzanti: “Disputa su Dio e dintorni”, Mondadori, 269 pagine per 18 euro e 50 centesimi. Ma questo accade perché uno dei due, il teologo Mancuso, ha già vinto in partenza e rilassa i muscoli; l'altro, l'erudito Augias, si contrae nel godimento sensuale della propria sconfitta. Entrambi sono programmaticamente fuori posto, ciascuno a modo suo, e appunto per questo interessanti. Mancuso è un credente acattolico a proprio agio nella chiesa cattolica contemporanea. Augias rivendica sangue ebraico per parte di madre, denuncia un incontro traumatico con la religione galilea (certe carezze di un prete), patisce lo scarto tra la tesi nullista che deve sostenere e la sensibilità con la quale affronta la pugna. Verrà sedotto e travolto senza clangore di ferri.
I due si trovano fin dall'inizio nella scelta di confrontarsi sull'origine della vita e la sua evoluzione, sul suo compimento e sulla libertà individuale d'incatenarsi a questa o quella sorte, a questa o quella morte. Chiamano ciò “Dintorni” ed è già il cuore del libro, il giardino in cui la disputa fiorisce nel dialogo e finisce per rendere quasi superflua la pars maior che segue, dedicata a “Dio (e altri misteri)”. Augias muove con generosità, rinuncia alla dissimulazione, non si mette in guardia, consegna se stesso e il senso dell'umano nel “grande flusso dell'Essere” che non è Dio, non ha trascendenza, non giustifica dogmi fuori dall'orizzonte morale dell'io federato al consesso civile. La legge morale “dentro di sé” è il salvacondotto kantiano opposto alla metafisica cattolica e alla sua proiezione mondana gerarchizzata, la chiesa vaticana, ed è il frutto di un'evoluzione giocata dalla sorte sulla ruota della casualità. Numerose, classiche e affidabili – da Darwin ai suoi migliori discendenti – le fonti biologiche e filosofiche che alimentano la narrazione illuminista di Augias. Ma che vale?
Il lettore del Foglio ha fatto in tempo a familiarizzare con la sottigliezza quieta di Mancuso, con la sua capacità di argomentare entrando in casa altrui per riconoscervi il calco negativo della propria. Con Augias va così. Il teologo raccoglie la medesima sintesi proteica dalla quale originò la vita visibile cara agli atei evoluzionisti e ne deduce un disegno implicito, “una logica intrinseca alla natura”, una legge pronta per sedimentarsi nello stesso Essere eterno, ma “personale, quel Dio interpretato dalle diverse religioni in vario modo, e dal cristianesimo come amore”. Già la parola amore ha un potere seduttivo stupefacente, percorre tutto l'arcobaleno che può collegare l'Eros primigenio – forza attrattiva universale – all'umanitarismo contemporaneo. Se poi si stralcia preventivamente la scena del Dio demiurgo che avrebbe prima creato e poi decotto il brodo primordiale (Genesi 2,7); se si predilige l'infusione del soffio vitale nella polvere per affermare “che l'origine della vita non va interpretata come un miracolo che scende dall'alto, bensì come una proprietà emergente da una certa configurazione della materia”; se si riduce a pura questione statistica la necessità interna alla formazione dell'essere uomo e delle sue aspirazioni estetico-spirituali; se si fa questo, e Mancuso fa proprio questo, si esce dalla lettera del testo rivelato su cui poggia l'edificio giudaico-cristiano ma si entra nell'accampamento avversario e si getta scompiglio. Stabilito (da un cattolico acattolico) che Dio è materia in ebollizione dotata di un fine interno, di che discutere oltre?
Sicché Augias ripiega subito sulla violenza mondana: “Penso che la storia della chiesa cattolica è accompagnata da una serie nutrita di errori e di crimini; la sua pretesa di proclamarsi portatrice di una morale valida per tutti non è legittima”. Ma qui si fa appello alla violenza di una chiesa dalla quale Mancuso è filosoficamente uscito prima ancora di entrare nelle pagine di questo libro. Così la replica diventa uno sfoggio sereno e compiaciuto di sensatezza convenzionale: la chiesa gerarchica e la sua dottrina ufficiale stanno da una parte e si ergono come un male necessario (forzatura interpretativa non peregrina) ma non sufficiente e anzi più spesso ostativo a che la “verità” dello spirito si dispieghi extra moenia. Perché dall'altra parte – dice Mancuso – signoreggia invece la sua “chiesa celeste” animata “dalla tensione interiore verso il bene e la giustizia” e di conseguenza tutta proiettata verso il mondo, fuori dalla sorella istituzionale gerarchica: “Se rimanda alla vera chiesa, che è la chiesa celeste, la chiesa istituzionale è fedele a se stessa, altrimenti no”. Bene, e che cosa sostiene questa chiesa celeste di cui Mancuso, perfetto discepolo di Carlo Maria Martini, è qui voce suadente? Per esempio, se Augias dice che i papa boys lasciano dietro di sé scie imbarazzanti di preservativi, la chiesa celeste certifica: “1) l'insostenibilità della dottrina cattolica ufficiale sulla contraccezione; 2) la maggior saggezza pratica di questi giovani rispetto ai dettami ufficiali della dottrina, incapace di fare i conti con la realtà della vita; 3) che dietro tante manifestazioni religiose di massa, così care al Vaticano dei nostri tempi, c'è spesso ben poca spiritualità”.
Siamo al primo esempio carnale, in fondo nemmeno il più dirimente, e l'ateo erudito già va in confusione: “Io sono convinto che sia così, ma ancora una volta sono cose che dovrei sostenere io, non lei. Lei è un teologo, ancorché coraggioso e controcorrente”. Se questo è il focolaio acceso nel castrum di Augias, che peraltro si difende versandosi addosso pece bollente – “Mi chiedo se i cattolici come lei siano una spina nel fianco per la chiesa o non la sua foglia di fico” – immaginarsi le fiamme esultanti quando Mancuso infilza i prelati che hanno negato i funerali a Piergiorgio Welby: “Uno scandalo di cui i responsabili renderanno conto a Dio”. O quando, a proposito del caso Eluana Englaro, dice che “una sana teologia” non può non estendere la libertà “anche alla deliberazione degli uomini sulla propria vita mediante il principio di autodeterminazione”. O quando il cattolicesimo di Mancuso si denuda come “ricerca di una spiritualità universale, in grado di far sì che tutti gli uomini, a prescindere dalle appartenenze religiose, si possano aprire alla realtà del bene e della giustizia quale valore supremo per cui vivere”; qualcosa di paragonabile alla “bodhi di cui parla il buddhismo, il satori dello zen”, una cosa “analoga alla conversione della mente o metanoia di cui parla il cristianesimo (e non a caso nel cristianesimo primitivo il battesimo veniva designato proprio photismòs, illuminazione)”.
Un passetto ancora e si giungerebbe alla Noosfera di Theilard de Chardin (assai caro al teologo) o all'unità trascendente delle religioni teorizzata da Frithjof Schuon, l'allievo di quel cattivo incantatore antimoderno chiamato René Guénon. Per sua sorte Mancuso è un evoluzionista, un uomo modernissimo nella sua fede e nella sua “teologia laica”. Nondimeno la chiesa gerarchica dovrebbe comunque urlare all'eresia. Augias freme per l'incolumità del suo interlocutore (sono entrambi schedati come “pericolosi” nei dossier delle spie vaticane); teme per la sorte di questo suo antagonista così mondano da ripetere, come in un precedente suo libro, “che parlare di un'anima spirituale che prescinda dalla materialità dei corpi dei genitori è pura mitologia”.
Per molto meno in altri tempi si finì al rogo, si dispera vanamente l'ateo erudito: “Poiché attraverso questa nostra disputa ho imparato non solo a stimarla, ma anche a nutrire una viva simpatia per le sue idee, la prego di essere prudente”.
Ma né Gesù né sua madre sfuggono alla spericolatezza di Mancuso, quando lui nega il dogma dell'immacolata concezione e si rifugia nel ventre di una madre/materia impersonale più comprensibile agli occhi di un cristianesimo delle origini che attira molto anche Augias: “Del resto il cristianesimo delle origini, quello più prossimo alle parole del fondatore, era assai più vicino dell'attuale a molte delle cose che ho detto”. Ma che cosa ha detto Augias, a parte qualche scappatella troppo ebraicizzante nell'interpretazione cristica, che Mancuso non abbia accolto, arrotondato, coccolato nell'indulgenza e modellato sul prototipo della promiscuità originaria esibita dal cristianesimo gerosolimitano? Il cristianesimo dei martiniani che, senza rinunciare alla loro Roma Mammona, identificano nel deserto mediorientale il traguardo (escatologico perfino) del proprio magistero, l'alfa e l'omega della chiesa integrale (non si butta niente!) che pretendono, con Agostino, essere nata con Abele. Dunque il mistero Mancuso non è un mistero, povero Augias, è soltanto (e si fa per dire) eccellenza filosofico-scientifica germinata dal seme dei primi predicatori della “religio noua” e reincarnata in gente che chiama Dio il caso più o meno intelligente degli atei e sorride del loro adorato periplo scimmiesco nel quale riconosce l'astuzia della ragion divina sotto forma proteica.
Certo poi il temperamento varia a seconda delle equazioni personali. Augias conclude la prestazione con un lirismo fuori misura: “Una volta, allo zoo, ho sentito fortissima la tentazione di abbracciare il povero corpo peloso, lubrico, inconsapevole di uno scimmione, e che lui abbracciasse me, annullando in tal gesto di goffa fraternità i milioni di anni che ci separano”.
Mancuso preferisce l'ultima stazione evolutiva, l'umanità celestiale delle sonate di Bach e quella terrestre sulla quale proiettarne democraticamente l'armonia. La sua teodicea materica ha un fascino settario. Il suo apparente relativismo metafisico, molti secoli fa, sarebbe forse andato incontro alla virile richiesta del nostro Quinto Aurelio Simmaco, il senatore gentile che nell'anno 384 dell'èra volgare patrocinò invano, davanti all'imperatore Valentiniano II, la causa per il ripristino dell'Ara Victoriae nella Curia Iulia del Foro romano.
Diceva Simmaco: “Guardiamo le medesime stelle, comune è il cielo, un medesimo universo ci racchiude: che importa con quale dottrina ciascuno ricerca la verità? Non si può giungere fino a così sublime segreto per mezzo di una sola via”. Mirabile esercizio di paganesimo (dissimulatorio?) non relativista frustrato dal Camillo Ruini dell'epoca, il vescovo Ambrogio che aveva sequestrato l'anima della corte imperiale stanziata a Milano. I senatori galilei, nella circostanza, non si erano opposti all'ambasceria di Simmaco. Forse, perché non insistere, Mancuso avrebbe fatto sua quella loro insolita liberalità. Avrebbe perduto anche lui, però, come ha già perduto (ma lo sa benissimo) la contesa domestica con il riverbero terreno del primo fra i dieci comandamenti da cui tutto discende – “Non avrai altro Dio…” – e con le varie canonizzazioni succedutesi dal Concilio di Nicea a quello di Trento. Il Vaticano II al confronto è un collare appena allentato e comunque, oggi, non se la passa granché bene. Paradossale? Nient'affatto.
Il cattolicesimo comprende in sé come un congegno originario di autodistruzione che deve tenere sempre sotto controllo, forte di un'allucinazione condivisa coi paleocristiani – l'ineluttabilità trionfale dell'avvento cristico – ma pure consapevole che il ritorno alle origini desertiche della sua dottrina coinciderà con l'azzeramento della dottrina medesima e con lo sbandamento delle pecorelle al seguito. Se Mancuso non fosse uno dei volti di questo congegno, non oserebbe tanto: “Inizio dichiarando che nella dogmatica cattolica c'è qualcosa che non va, e che la causa è data dall'impossibilità logica di tenere insieme tre assunti, per essa irrinunciabili: 1) il male c'è; 2) Dio non lo vuole; 3) Dio governa”. Deduzione sillogistica: “Se la natura è governata, è governata sempre. Non si può fare il gioco delle tre carte sulla pelle delle persone. La ‘ripulitura filosofica del cristianesimo' auspicata da Simone Weil deve iniziare da qui”. Per finire dove? Nel nulla, a meno di accontentarsi della generica idea di bene “che fa apparire la realtà scandalosa del male” cui s'appella Mancuso. Come stornare allora lo sguardo da quel fine interno, da quella entelechia cumulativa, come direbbe l'ellenizzante Mancuso, esibita sottotraccia da una religione fondata, sì, sulla rivelazione scritta unidimensionale, ma costretta a rimasticarsela di giorno in giorno pur di non perdersi il mondo circostante? Che non si lasci nulla al diavolo!
Ecco perché, a leggere con occhio olimpico la “Disputa su Dio e dintorni” tra Augias e Mancuso, se ne ricava pure la sensazione che tanto i due contendenti fraterni quanto l'oggetto della loro fraterna contesa altro non siano che variopinti coleotteri appena coscienti di sbattere le rispettive ali sulle pareti interne dello stesso barattolo di vetro trasparente, ermeticamente chiuso, tremendamente fragile. Come ogni ciclo che va chiudendosi.
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