Sergio Marchionne e le ultime fatiche Fiat tra i due continenti
Tu vuo' Fiat l'americano
Ma la Fiat come sta davvero? Non è una domanda oziosa. Il fatto è che negli ultimi tempi si è sentito e letto tutto e il contrario di tutto sul gruppo automobilistico torinese guidato da Sergio Marchionne, il grintoso e dinamico manager italo-canadese che fuma incessantemente, ha il vezzo di vestire sempre casual con un pullover scuro, e in questi giorni vive su un jet fra Torino e Detroit.
Ma la Fiat come sta davvero? Non è una domanda oziosa. Il fatto è che negli ultimi tempi si è sentito e letto tutto e il contrario di tutto sul gruppo automobilistico torinese guidato da Sergio Marchionne, il grintoso e dinamico manager italo-canadese che fuma incessantemente, ha il vezzo di vestire sempre casual con un pullover scuro, e in questi giorni vive su un jet fra Torino e Detroit per chiudere lo storico accordo fra la Fiat e la Chrysler che dovrebbe portare la casa torinese a diventare il primo azionista del malandato colosso americano. Il centro nevralgico delle trattative è a Washington.
Ieri mattina – ora italiana – è stato annunciato un primo via libera dal sindacato statunitense United Auto Workers (Uaw), accordatosi con Chrysler, Fiat e il governo americano sul taglio del costo del lavoro. Sempre a Capitol Hill si sarebbe lavorato ieri per avanzare una nuova proposta a quelle banche, tra cui Jp Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup, le quali vantano crediti per un totale di 7 miliardi di dollari nei confronti della Casa di Auburn Hills. Il Tesoro chiede anche a loro sacrifici: ripianare solo parzialmente il debito, rilevando in cambio una quota contenuta del capitale societario. Anche la General Motors ha annunciato il suo piano anticrisi: ristrutturazione del debito, tagli drastici al personale e chiusura di sei impianti in Nordamerica, con il conseguente abbandono dello storico marchio Pontiac. Il nome di Gm anche ieri è tornato ad apparire sulla versione online di Der Spiegel accanto a quello del Lingotto; citando infatti fonti vicine alla direzione Fiat, il giornale ha spiegato che in caso di accordo con Opel – controllata di Gm in Europa – il gruppo italiano non garantirebbe di mantenere inalterata la capacità produttiva dei siti produttivi tedeschi. L'alleanza Fiat-Chrysler sembra però essere tornata in pole-position. Il ceo della Casa americana Bob Nardelli ha ribadito di “lavorare con diligenza per finalizzare l'alleanza con Fiat e ristrutturare la propria attività entro il 30 aprile”.
Ed è proprio l'operazione Chrysler a far nascere spontanea la domanda sulle reali condizioni di salute del Lingotto. Perché sei mesi fa, nel pieno della crisi perfetta dei mercati, già suonavano le campane a morto per la Fiat: il titolo in Borsa aveva bruciato la quasi totalità del suo valore e molti esperti davano per scontato se non un suo prossimo fallimento, almeno qualcosa di turbolento, traumatico. Si parlava di chiusura di impianti, vendite a pezzi, fusione salvifica, ma in condizioni di inferiorità, con qualche big dell'auto. Poi, improvvisamente, ecco la situazione ribaltarsi. Come un coniglio dal cilindro del prestigiatore, è spuntata la carta americana: i torinesi si sono candidati a entrare (senza pagare un solo dollaro, beninteso) nel capitale della casa di Detroit. Nel giro di pochi mesi, settimane addirittura, la società di Marchionne si è trasformata da pigmeo denutrito e bisognoso di aiuti (gli incentivi alla rottamazione sono stati prorogati), in nerboruto gigante in grado di salvare il terzo big dell'automotive made in Stati Uniti. Il tutto con la benedizione della Casa Bianca.
Che cosa significa tutto questo? Anche nel freddo e spietato mondo del business esistono le fiabe? Chi ha ragione: i fan plaudenti o i gufi? Quando, nel 2004, Marchionne è arrivato al comando della casa torinese, le cose andavano male davvero (l'azienda era stata di fatto salvata dalle banche, con il famoso prestito convertendo) e pochi puntavano con convinzione sul successo di questo manager poco conosciuto. Invece Marchionne ha fatto bene: i risultati di tutti gli esercizi che portano la sua firma e la crescita continua del titolo in Borsa lo testimoniano senza possibilità di smentita. Certo non ha risolto il problema storico del Lingotto, vale a dire la sua dipendenza dal segmento più basso della gamma (meno remunerativo) e sua marginalità in tutti gli altri (che rendono di più). E ora che è arrivata la crisi economica questo tallone di Achille si è ripresentato: all'ultima assemblea degli azionisti, Marchionne e il presidente, Luca Cordero di Montezemolo hanno dichiarato un rosso per il primo trimestre dell'anno di quasi 400 milioni di euro. E l'espressione alto indebitamento è tornata nel quotidiano lessico aziendale: due mesi fa è stato messo assieme, e con una certa fatica, un gruppo di banche capitanato da Intesa e Unicredit che ha erogato un credito da un miliardo al Lingotto. Di questo pool non hanno voluto far parte la francese Bnp e la svizzera Ubs, di cui lo stesso Marchionne è vicepresidente: il che ha colpito e ha fatto nascere qualche sospetto.
Malgrado il rosso, l'esposizione verso le banche, e il posizionamento sul mercato non ideale, la situazione economica della Fiat non è peggiore dei suoi concorrenti. Anzi: l'automobile, come ha detto al Foglio l'ex presidente Fiat, Paolo Fresco, ha smesso di essere un business vincente ormai da più di dieci anni; ma in questa valle di lacrime, la Fiat non è certo quella che ne versa di più. Per sopravvivere e sperare di potere un giorno recuperare il sorriso, secondo tutti gli esperti del ramo, la strada è una sola: crescere, arrivare a una produzione di 6 milioni di pezzi l'anno, ottenere le mitiche economie di scala, sogno di qualunque manager. La Fiat ha una produzione attorno ai 2 milioni: se andasse in porto l'operazione Chrysler la raddoppierebbe, ma non basterebbe ancora. Di qui ecco le voci di un imminente accordo (dopo quello con Detroit) con un costruttore europeo: primo candidato il gruppo francese Psa (Peugeot-Citroën).
Ma negli ultimi giorni la pista Psa sembra abbandonata: la casa francese, inaspettatamente, ha licenziato il suo numero uno operativo, Christian Streiff, sostituito da Philippe Varin. Segno che ha seri problemi interni e deve risolverli prima di pensare ad alleanze.
Accantonata questa ipotesi, ne è subito stata formulata un'altra: la Fiat potrebbe rilevare l'Opel, il costruttore tedesco in serie difficoltà controllato da General Motors. Un boccone enorme. Tanto che il commissario all'Industria dell'Unione europea, il tedesco Günter Verheugen, ha ironizzato: “Ma come fa la Fiat, indebitata com'è, a immaginare un'operazione simile?”. Battuta infelice per un commissario europeo, subito stigmatizzata dal governo italiano che si è schierato a fianco della Fiat. Trovandosi in perfetta sintonia con Corrado Passera, amministratore delegato di IntesaSanpaolo che ha detto: “La Fiat ha tutto il nostro appoggio appassionato. Tutte le volte che ci è stata data la possibilità di dimostrare il nostro sostegno a progetti Fiat, lo abbiamo fatto con convinzione”. Probabilmente dell'operazione Opel non si farà nulla, perché è davvero ciclopica. Però una cosa si è capita da questa crisi dell'auto: per venirne fuori ci vogliono soluzioni di sistema. Sono necessari imprenditori e manager con progetti coraggiosi, governi che li appoggino e banchieri che li finanzino. Forse questa volta l'Italia prova davvero a far sistema.


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