Si salvi chi può
I vertici del Pd (da Franceschini a Veltroni, da D'Alema a Bersani e Letta) ricordano sempre di più Mikhail Gorbaciov e la “testa” del Pcus che portarono alla dissoluzione l'Unione sovietica. Persone con buoni sentimenti e idee, che magari determinano processi positivi ma non più padroni della propria storia.
I vertici del Pd (da Franceschini a Veltroni, da D'Alema a Bersani e Letta) ricordano sempre di più Mikhail Gorbaciov e la “testa” del Pcus che portarono alla dissoluzione l'Unione sovietica. Persone con buoni sentimenti e idee, che magari determinano processi positivi ma non più padroni della propria storia. Nomenklature separate dalla realtà, perse dietro a giochi di immagine. La compilazione delle liste europee è un esempio di questa tendenza. Si inizia sostenendo che queste elezioni, per la scarsa importanza, possono divenire un test contro Berlusconi: senza interessi in ballo possono vincere i principi. Poi si cambia idea, si esalta “lo specifico” e si rifiuta la sfida delle leadership. Finendo per combinare teste di lista con un capolavoro di insipienza politica: l'esangue giornalista televisivo David Sassoli (almeno l'altra volta c'erano Michele Santoro e Lilli Gruber), l'ex leader della Cgil odiato nel nord est perché ha prima inguaiato poi abbandonato Bologna e osteggiato nel nord ovest perché imposto sui candidati del territorio.
Si mette nel nord est un vecchio professore che non c'entra niente con quella realtà perché si spera che il cognome “Berlinguer” porti a votare gli antichi comunisti. Si punta sui “cognomi”, e insieme si fanno fuori i quadri vitali come Goffredo Bettini o Umberto Ranieri (tra i pochi a occuparsi di politica estera nel Pd). Demenziale è lasciare fuori governatori e sindaci, assolutamente compatibili e che porterebbero realtà concrete nella rarefatta Strasburgo. Non solo, in questo modo non si dà sbocco politico agli uomini più significativi che il Pd ha sul territorio e che fra due anni saranno ineleggibili: da Sergio Chiamparino a Flavio Zanonato. E questo avviene perché non si sa come comportarsi con Antonio Bassolino, che non si riesce a far dimettere ma non si vuole più sostenere. Al di là del voto europeo che in sé conta poco, il messaggio che si manda al partito è devastante: il gruppo dirigente del Pd è fuori controllo, si salvi chi può. Quello che colpisce è l'incapacità, appunto quasi gorbacioviana, di governare i processi concreti. Così a Bologna si presenta contro il Pd un vecchio professore di buon senso, recuperabile con minimo sforzo e intelligenza, Gianfranco Pasquino; a Firenze un politico bollito sin da piccino ma non dalla storia estremistica (era vice di Bettino Craxi) guida contro il Pd una coalizione sostenuta da Rifondazione. A Reggio Emilia contro il Pd, d'intesa con l'Udc, si presenta l'ex sindaco Pci, poi Pds, poi Ds Antonella Spaggiari, presidente della strategica Fondazione Manodori. Mentre a Livorno si schierano contro il Pd due ex sindaci ex Pci, Gianfranco Lamberti con lista civica che flirta anche col centrodestra e Marco Cannito con la lista Città diversa, sostenuta da Verdi e Sinistra critica. Simili processi disgregativi si producono a Pavia, in provincia di Milano e altrove. Ma fa impressione vedere mobilitarsi contro “il partito” ex sindaci di città super-rosse cresciuti nel Pci e non in qualche lista Segni.
In sé, come appunto la fine dell'Unione sovietica, lo sgretolarsi di mille nomenklaturine può essere anche positivo. Ma la mancanza di una qualsiasi guida razionale di questo processo produce consistenti effetti indesiderati. Sembra di capire che elementi strutturali della sinistra diano quasi per spacciata la formazione politica che ne è oggi l'asse portante e si rivolgano al centrodestra per affrontare i propri obiettivi e interessi. Il Foglio ha descritto in questo senso le relazioni tra Tremonti e settori del prodismo che esprimono realtà di spessore innanzi tutto nel mondo della finanza italiana. Si ha la sensazione che anche la Cgil – in qualche misura si è visto nel caso circoscritto della Popolare di Milano ma segnali fanno pensare a interlocuzioni di maggior portata – cerchi una sponda nel ministero dell'Economia in parte per compensare i confronti più duri con quello del Lavoro. E più in generale per sopperire all'incapacità “strategica” del Pd di occuparsi di sindacato. Singolare è stata anche la sponda di studiosi che vengono da destra (da Marco Tarchi a Franco Cardini a Marcello Veneziani, a Alessandro Campi e altri ancora, escludendo rigorosamente “i berlusconiani”) cercata dall'azionismo più radicale di Gustavo Zagrebelski per discutere di “democrazia”.
Ora il dialogo è assolutamente positivo, Tremonti fa benissimo a usare tecnici di ogni colore, chi viene dalla destra fa bene a far ragionare sulle istituzioni un certo radicalismo azionista. Tutto bene. Ma se il centrosinistra si disgrega, se non c'è più un'interlocuzione istituzionale tra maggioranza e opposizione, i rischi di un'involuzione della politica italiana ci sono tutti: conosciamo che cosa è stato il trasformismo politico dell'Ottocento e quante radici abbia questa tendenza politica nella nostra storia e società, come il suo prevalere impedisca di per sé la definizione sia di un vero federalismo sia di tendenze unificanti a livello nazionale. Né naturalmente la salvezza può venire da quelle porcheriole politologiche avanzate in questi giorni sulla tripartizione della realtà italiana tra populisti, moderati e progressisti. Teorie che mascherano l'idea di costituire una sorta di centro degli “scrocconi” senza voti e senza reali basi sociali ma con l'aspirazione a condizionare tutto. C'è una via d'uscita? Così a occhio solo un Pd diviso per aree come proposto da Chiamparino (nord, centro e sud). Ne parleremo.
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