Nessuna spagnola in arrivo, è più o meno lo stesso virus della Sars che ogni tre anni cerca un posto nel mondo globale
Credo che qualcosa come svariati milioni di dosi di farmaci antivirali siano stoccati da qualche parte – Ministero, Istituto Superiore di Sanità, chissà – già dai tempi dell'allarme della Sars (Severe Acute Respiratory Sindrome, ovvero Sindrome Respiratoria Acuta Grave), vale a dire dal 2003.
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Dal Foglio del 29 aprile 2009
Credo che qualcosa come svariati milioni di dosi di farmaci antivirali siano stoccati da qualche parte – Ministero, Istituto Superiore di Sanità, chissà – già dai tempi dell'allarme della Sars (Severe Acute Respiratory Sindrome, ovvero Sindrome Respiratoria Acuta Grave), vale a dire dal 2003 quando, dopo essere comparsa in Cina alla fine del 2002, la malattia infettiva arrivò per un verso in Vietnam e Hong Kong e per l'altro a Toronto, in Canada, dove fu prontamente circoscritta. Secondo l'Oms il virus della Sars nel periodo 1° novembre 2002-31 luglio 2003 avrebbe infettato 8.098 persone, e causato la morte di 774.
Se si escludono le aree d'insorgenza della malattia la Sars non si diffuse da altre parti, se non molto sporadicamente e senza conseguenze, e il tutto si risolse in una bolla di sapone, non senza prima aver dato luogo a un imponente commercio di farmaci antivirali dei quali peraltro non si conosceva in modo soddisfacente l'efficacia. Ricordo la Sars perché l'idea di utilizzare ciò che venne acquistato e stoccato allora in Italia potrebbe, secondo un'ipotesi che viene ventilata apertamente, essere oggi riciclato semmai di questo nuovo allarme riguardante l'influenza suina dovesse presentarsi in Italia qualche traccia rispetto a quelle al momento inesistenti. Possibilità remota.
Siamo in presenza di una nuova, periodica ormai, ondata di una influenza “non umana” dovuta a qualche virus che, passando da animale ad animale e da ambiente ad ambiente, finisce per trovare in qualche area del mondo condizioni che interferiscono con la sua struttura genetica così da consentirle il famoso “salto di specie”, che può arrivare alla “specie umana”. Anche questo dell'influenza suina appare come un virus tutto sommato noto, una variazione sul tema dell'aviaria, un ceppo mutato con la facilità con cui mutano i virus, e segnatamente quelli dei volatili. Volatili che rappresentano il grande serbatoio virale, probabilmente anche in correlazione con le sempre più grandi concentrazioni di uccelli e animali negli allevamenti intensivi.
Abbiamo sentito che il virus H1N1 dell'influenza suina si diffonde soprattutto attraverso contatti ravvicinati, e più facilmente ancora mediante le goccioline prodotte dalla tosse o dagli starnuti delle persone infette. E che si propaga anchae quando una persona tocca una superficie o un oggetto contaminato con goccioline infette e quindi porta le mani alla bocca, sul naso o sugli occhi. Non baciarsi, dunque, e magari neppure stringersi le mani. Anzi tra le misure da adottare per prevenire la diffusione di questa influenza suina, ricompare quella di lavarsi frequentemente le mani con acqua e sapone ed evitare di portare le mani non pulite a contatto di bocca, naso e occhi. Non è cambiato nulla. Cose risapute ben prima della Sars e dell'Aviaria. Il perché è semplice, le differenze tra Sars, Aviaria e influenza suina sono minime. Si tratta di variazioni su uno stesso tema di fondo: i virus si modificano, si trasformano così da “saltare” da una specie d'elezione a un'altra, a volte arrivando all'uomo. Sono a tal punto interscambiabili, anzi, che non soltanto l'agente eziologico è pressoché lo stesso ma i sintomi attraverso i quali si manifestano queste sindromi sono uguali e a loro volta analoghi ai sintomi delle comuni influenze stagionali.
Così si assiste a una sorta di curioso avvicendamento: scompare la Sars e arriva l'influenza dei polli, scompare l'influenza dei polli ed è ora la volta dell'influenza suina. Anche il tempo di avvicendamento sembra essersi stabilizzato, ma riducendosi alquanto: circa un triennio. Una fiammata epidemica, tre anni di silenzio, una nuova fiammata epidemica – chiamata con tutt'altro nome ma molto simile nel modo di presentarsi, negli effetti, nella letalità, nelle stesse misure di contrasto, a ciò che ha sgombrato il campo – e poi ancora tre anni di silenzio. Il tempo di passaggio da un'ondata epidemica all'altra di origine virale si è alquanto ridotto, dicevo, rispetto al passato. E questo è un dato. Difficile, straordinariamente difficile, invece, con i sistemi di sorveglianza e le misure di prevenzione e profilassi esistenti oggigiorno in molte parti del mondo, e le agenzie sanitarie internazionali in grado di mobilitarsi in tempi brevi, anche quando non ce n'è effettivo bisogno, che possa davvero manifestarsi una pandemia globale. Parlare di spagnola è del tutto fuori luogo, un'influenza come la spagnola che fece 18-20 milioni di morti non è concepibile nel mondo di oggi, anche se questo mondo è ben più interrelato e comunicante di quanto non fosse ieri.
Anzi, sembra che la ricorrenza di queste crisi sia proprio dovuta al motivo opposto, al fatto cioè che un virus, per quanto cambi e si trasformi, e salti fino alla specie umana, e insomma cerchi di potenziare al massimo il suo potere infettivo-diffusivo, non ce la fa a risultare davvero globale, a varcare i mari, a oltrepassare i monti, cosicché resta sostanzialmente confinato in un'area di mondo dove può essere circoscritto e ridotto senza gravi perdite (non si possono considerare gravi i 774 morti a livello mondiale provocati dalla Sars nel 2002-2003) all'impotenza. Con ciò, però, motivandolo, s'è possibile dir così, a ricercare ulteriori variazioni e modificazioni per riprovarci sotto altra forma. Proprio la nostra capacità di combattere i virus, in un'epoca nella quale essi non sono mai stati, grazie alla globalizzazione, agli scambi, alla crescita di coltivazioni e allevamenti intensivi, così favoriti, spinge le masse biologiche virali a cambiare e aggredire, cambiare e aggredire per sopravvivere. Giacché anch'esse a questo tendono, alla sopravvivenza.
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