Dopo la celebrazione del Cav.
Le favolette sull'unità resistenziale sono finite a Onna, il 25 aprile
La celebrazione berlusconiana del 25 aprile a Onna potrebbe avere chiuso un ciclo della politica italiana: quello dell'uso della Costituzione e della Resistenza come strumenti di delegittimazione dell'avversario. Stagione spiegata con chiarezza da Marco Revelli su Liberazione: “Pensiamo al 1994, al primo governo Berlusconi. Quello fu un 25 aprile di lotta e vincente”.
La celebrazione berlusconiana del 25 aprile a Onna potrebbe avere chiuso un ciclo della politica italiana: quello dell'uso della Costituzione e della Resistenza come strumenti di delegittimazione dell'avversario. Stagione spiegata con chiarezza da Marco Revelli su Liberazione: “Pensiamo al 1994, al primo governo Berlusconi. Quello fu un 25 aprile di lotta e vincente”. In qualche modo è la tesi anche di Adriano Prosperi sulla Repubblica quando sostiene che va difeso il nome di festa della Liberazione e non della Libertà perché questa è la via “per tenere aperta una ferita”. Esattamente il contrario del desiderio di tante persone di buon senso e di validi sentimenti: chiudere “le ferite” e smetterla di utilizzare la sacra guerra al maresciallo Kesserling e alleati saloini come surrogato della normale lotta politica.
In questo contesto due tasselli fondamentali per ripartire sono stati fissati dal duo Giorgio Napolitano-Gianfranco Fini: la democrazia italiana non può essere ridotta a puro decisionismo legittimato dal voto, va impiantata in un sistema di contrappesi, di poteri, diritti definiti costituzionalmente. E la base di legittimità del sistema costituzionale italiano deriva dalla Resistenza.
Subito dopo – ha anche spiegato Napolitano – definita questa cornice, viene l'urgenza di innovare le istituzioni. Questo il messaggio colto positivamente da Silvio Berlusconi.
L'esigenza di innovare è fortissima anche perché la Costituzione nasce da un compromesso non sempre efficiente tra forze politiche che uscivano da una guerra civile e temevano di precipitare in un'altra. Un sentimento allora comprensibile che diventa però oggi un ostacolo a una dispiegata e libera democrazia: così per quel che riguarda il pasticcio corporativo del sistema giudiziario italiano (la non separazione tra giudici e magistrati inquirenti è quasi un unicum mondiale: anche il Portogallo ha superato questo lascito salazariano), così nella distribuzione di poteri tra assemblee ed esecutivo, tra stato centrale e sistema delle autonomie (e in prospettiva federale).
E' importante quindi distinguere le questioni di metodo (la procedura per modificare le coordinate istituzionali di uno stato deve essere una procedura complessa, attenta agli equilibri di poteri e diritti, non solo alle regole dell'efficienza) e simboliche (il valore della nostra libertà poggia sulla scelta dei partigiani che si opposero ai nazifascisti), dalle questioni di merito che richiedono un'elaborazione articolata ma puntuale.
E' lo stesso dibattito sull'antifascismo sviluppatosi in questi giorni che spiega come le soluzioni di domani non possano limitarsi in nessun modo a un puro evolversi nella nostra realtà storica. Lasciamo perdere l'estremismo che pure ha un ruolo importante nel centrosinistra italiano, tanto è vero che i suoi ultimi governi senza l'apporto degli estremisti non si sarebbero formati e vi sono ancora molte vedove dell'Unione, cioè del raccordo con Rifondazione comunista. Dino Greco spiega come l'estrema sinistra consideri solo due anni “italiani”, il 1947 e il 1948 (naturalmente fino al 18 aprile), veramente antifascisti. Oscar Lugi Scalfaro su questo argomento, deplorando i fischi a Roberto Formigoni per il 25 aprile, assume una posizione non solo da sepolcro ma da intero cimitero imbiancato, dice: “Non voglio credere che qualcuno usi le celebrazioni della Resistenza per dividere”. Come non vuole credere? Ignora il dibattito sostenuto innanzi tutto dai suoi attuali superlaudatores azionisti sulla Resistenza tradita? Si dimentica i quaranta anni di giovanotti (oggi diventati vecchiotti) che hanno sfilato a decine di migliaia gridando “la Resistenza è rossa, non è democristiana”?
Meno ipocrita, perché non molto informato, Michele Serra sostiene che sulla Resistenza ci fu sempre una grande unità di tutta la politica italiana tanto è vero che quando andava in sezione da iscritto al Pci gli si diceva di difendere quelli degli altri partiti che venivano alla manifestazioni del 25 aprile, persino i monarchici. A Serra sfugge il dibattito che si è svolto per trenta anni su Fronte popolare, fronte unico e reale riconoscimento della legittimità democratica. Probabilmente non conosce bene quello splendido cominternista, inventore di fronti popolari che operò negli anni Trenta, Willy Muenzenberg, e le sue tattiche per utilizzare i compagni di viaggio (Lenin usò un'espressione più brutale). Sfuggono i venti anni precedenti a quando lui andava in sezione, la rottura dell'unità antifascista, le manifestazioni contrapposte, i giochi del Pci sul Movimento sociale, l'opposizione a Mario Scelba che voleva mettere fuori legge il partito neofascista e i togliattiani che si opponevano anche per indebolire la Dc.
La complessità della vicenda italiana non è colta in parte anche da Eugenio Scalfari, naturalmente ben altrimenti informato, che sottolinea come la democrazia italiana si trasformò in partitocrazia tra la metà degli anni Sessanta e gli anni Ottanta. E' questa una sommaria esecuzione del centrosinistra che dimentica però come, nei decenni precedenti, la tenuta di una democrazia non partitocratica da parte del centrismo fu praticata anche non attuando o attuando molto al rallentatore la Costituzione (dalla formazione della Corte costituzionale a quella del Consiglio superiore della magistratura al decollo delle regioni). Una “trappola”, la definiva Scelba. Principe senza scettro, democrazia senza Costituzione, chiamò Lelio Basso quella stagione. Per tener saldi principi e simboli, e insieme innovare profondamente, la prima cosa da fare è non raccontarsi favolette.
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