Festeggio Fiat-Chrysler, ma gli americani in 500 non li vedo
Lasciatemi dire quel che penso della storia di Fiat e di Chrysler, e poi archiviate il tutto come demenza, ignoranza, bastiancontrarismo. Io alle favole non credo più da quando ero piccino, e anche da bambino ero un po' scettico (mi dicono).
Lasciatemi dire quel che penso della storia di Fiat e di Chrysler, e poi archiviate il tutto come demenza, ignoranza, bastiancontrarismo. Io alle favole non credo più da quando ero piccino, e anche da bambino ero un po' scettico (mi dicono). E il sapore inconfondibile della favola aleggia sullo storico affare Torino-Detroit.
Per le grandi notizie globali, prendo sempre Vittorio Zucconi e mi regolo con lui come Lenin faceva con il capo della rivoluzione ungherese dei Consigli, una specie di sinistra radicale del 1919 (“Quando sento sparare una fanfaronata, penso sempre che sia stato Bela Kun”). L'incipit del suo commento su Repubblica era questo: “Figlia di un dio povero e frugale, che mai avrebbe sognato di convertire le divinità dei motori nel loro santuario, la nostra bambina di latta arriva nella terra dei ciclopi d'acciaio per cercare di salvarli dalla loro cecità”. La bambina di latta è la Fiat 500, e “può accadere” che la piccina conquisti il mercato americano, garantisce Zucconi, uno che scrive bello e spara grosso. Ma davvero?
Intanto bisogna dire che Obama e Marchionne sono due grandi dell'affabulazione. Due che sanno come sfruttare la crisi e come generare speranza, prodotto non tipicamente manifatturiero. Non sono doti da poco, lo dico senza ironia, e valgono altre virtù cardinali del fare politica o del comando d'impresa: virtù come il realismo, la prudenza, il coraggio, la competenza. E nella grande avventura di portare Torino a Detroit, passando per Washington e ora anche per la New York dell'amministrazione controllata (chapter 11), si rinvengono anche elementi di realismo, di prudenza e di coraggio e di bella competenza. Però festeggerei con giudizio.
Per essere breve e chiaro. Vedo le banche americane che rinunciano a riscuotere i crediti, anche perché incassano i finanziamenti federali e la rinuncia gliela chiede la Casa Bianca con il Tesoro Usa (invece gli “speculatori” degli hedge fund non prendono soldi dai contribuenti, fanno quel che vogliono, e hanno portato Chrysler al fallimento in un batter d'occhio). Vedo i sindacati che rinunciano a conquiste messe in discussione dal semplice fatto che hanno affondato sia la Chrysler sia la General Motors: nel sud degli Stati Uniti e nel resto del mondo il manufatto automobilistico si fa con costi che sono di almeno un terzo inferiori a quelli di Detroit, e se le Unions non cambiano linea negoziale la città dei macchinoni sul lago Michigan, che è già parecchio desertificata, diventerà spettrale, una ghost town. Vedo l'eccellenza relativa di una Fiat che è riuscita a imporre una sua ripresina manifatturiera, nuovi modelli come la bambina magica, e soprattuto detiene l'imprinting di un'automobile meno kolossal e meno dispendiosa di quelle chrysleriane. Ma non vedo gli americani in 500, e se è per questo nemmeno in Alfa. Per una semplice ragione: se quelle erano le macchine adatte alle loro strade, ai loro bisogni, alle loro distanze, non potevano pensarci prima?
Mi riesce anche difficile immaginare, al di là della cortina di high talk che ci ammannisce soave il team Obama, capace di vedere “un futuro luminoso” anche quando manca la luce, a una grande operazione euro-americana, magari con estensioni asiatiche, che fa nascere senza una lira di Torino, e con 6-8 miliardi di dollari americani, un colosso da sei milioni di auto prodotte. Credo anch'io, in mancanza di meglio, nel rilancio globale della manifattura, nel valore che in futuro avrà la produzione contro la strega cattiva della finanza, ma l'investimento, la lira, mi sembrano ancora strumenti necessari per far funzionare le linee di assemblaggio, le tecnologie produttive, il marketing. Chissà. Vedremo. Per adesso mi pare che si debba festeggiare Marchionne perché giganteggia in strategie della crisi, in un lobbismo di alto rango, in tecniche di seduzione transatlantiche. Che non è poco, di questi tempi.
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