Da Panorama del 19 giugno 1997

Un mistico in odore di politica

Gianni Baget Bozzo

La mia scelta del sacerdozio fu un dolore per mia madre. Alla fine del primo anno in seminario, mi ammalai. E mia madre, che vide in ciò un segno del cielo, distrusse le mie vesti talari. Scappai di casa due volte, ma l'arcivescovo di Genova mi disse di obbedirle. La maggiore età era allora fissata ai 21 anni, l'accordo fu di aspettare allora. Credo che la mia vita ecclesiastica sarebbe stata più tranquilla senza questo incidente di percorso.

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    Pubblichiamo uno stralcio dell'autobiografia di don Gianni Baget Bozzo apparsa su Panorama il 19/06/1997. Don Gianni è morto questa notte a Genova. Aveva 84 anni. Domani sul Foglio l'autobiografia completa.

    "La mia scelta del sacerdozio fu un dolore per mia madre". Alla fine del primo anno in seminario, mi ammalai. E mia madre, che vide in ciò un segno del cielo, distrusse le mie vesti talari. Scappai di casa due volte, ma l'arcivescovo di Genova mi disse di obbedirle. La maggiore età era allora fissata ai 21 anni, l'accordo fu di aspettare allora. Credo che la mia vita ecclesiastica sarebbe stata più tranquilla senza questo incidente di percorso. Andai all'università per studiare legge, ed entrai nella Dc clandestina. "La Voce annunciava una crisi, l'autodistruzione della Chiesa". Era avvenuto un cambiamento che riguardava i rapporti con Dio. L'esperienza mistica iniziò con un senso fortissimo della Presenza divina, al punto tale che, per un anno, non fui in grado di leggere un libro senza che la mia vista si appannasse. Il tema centrale della Voce che sentivo era l'annuncio di una grande crisi dottrinale che avrebbe invaso la Chiesa dall'interno. Io allora non pensavo affatto quello che ascoltavo: la Chiesa di Pio XII sembrava solida e compatta... "Furono anni di solitudine. Leggevamo i mistici come cospiratori".

    Dopo la caduta del governo Tambroni e l'apertura a sinistra, che avvertivo come un tradimento del partito verso il suo popolo, decisi di abbandonare la politica. Con un gruppo di amici ci riunivamo in sale parrocchiali per leggere testi patristici, testi mistici e San Tommaso d' Aquino. Ci sentivamo come esuli nel mondo. Di lì a poco il Concilio Vaticano II avrebbe rappresentato il momento più drammatico di quella crisi della Chiesa che la Voce aveva annunciato. "Avevo ormai accettato una condizione di isolato e di reietto...". Comprendevo che la crisi politica era il segno, l'effetto e l'annuncio della crisi ecclesiastica. Tornai sui banchi di scuola a studiare la teologia. Furono cinque anni di esercizi spirituali, rallegrati dalla visita domenicale a molti santuari d'Italia. Mi laureai in teologia in Laterano nel '66. Poco dopo il cardinale Siri mi chiese se volevo farmi prete. Esitavo. Ma in un viaggio in Francia, nella cattedrale di Tours, la Voce mi disse di accettare. "Per incidere sulla Chiesa dovevo incidere sull'opinione pubblica".

    Riconobbi subito, dallo stile, le lettere di Moro dalla prigionia. Ero per la trattativa, perché pensavo che fosse l'unico modo per conoscere che cosa fossero le Br, di cui lo Stato non sapeva nulla, così come le Br nulla sapevano dello Stato e della Dc, scambiata per il partito delle multinazionali. Quel 1978 fu segnato da un altro evento, la morte di Paolo VI. Scrissi allora che speravo in un papa straniero. Non immaginavo che presto sarei stato così radicalmente esaudito. "Non poter più dire Messa fu la sofferenza maggiore della mia vita". Scelsi con timore e tremore la via della candidatura al Parlamento europeo nelle liste socialiste. Capivo che avrei aperto un conflitto interno in me stesso, che infine ero prete sino al profondo dell'anima. Dovevo bere l'asprezza del calice del conflitto sino in fondo. Questa volta avevo gli onori del mondo ma il disonore della Chiesa. Nove anni dopo, la proibizione di dire Messa finì, ma trovai una Chiesa molto cambiata. E il Pci aveva vinto la sua battaglia contro la Dc e il Psi a un tempo. Ebbi dalla Voce un'unica indicazione: quella di combatterli in nome della libertà.

    Giuliano Ferrara mi chiede di scrivere una autobiografia, il che fa sempre difficoltà, perché ci si domanda se non sia un atto di narcisismo. Da che punto comincia una vita? Certamente dall'infanzia, ma non mi sento di spingere la mia impudenza sino a raccontare i miei primi anni. Comincio quindi dalla prima decisione presa per mio conto: quella di farmi prete, a 17 anni. Anzi, la prima idea era quella di diventare missionario. Finito il liceo, quella scelta mi apparve l'unica soluzione che potevo dare alla mia vita. Era molto legata a una grande fiducia nella Chiesa: ero un patriota cattolico, la Chiesa era la mia vera patria. Al liceo c'era la divisione tra fascisti e antifascisti. Il regime fascista era molto tollerante nella vita privata. Quando entrava la professoressa di storia dell'arte, la bravissima Caterina Marcenaro, che era però severissima, tutti, fascisti e antifascisti, scattavano nel saluto romano. La mia famiglia non era fascista, anche se mio padre, sergente dell'Aeronautica, aveva, in obbedienza al suo comandante, consegnato a Benito Mussolini un aereo della Regia aeronautica per portare a Gabriele D'Annunzio i soldi della raccolta del Popolo d'Italia per Fiume italiana.

    Fu arrestato e rischiava la corte marziale, ma dopo le elezioni del '19 venne liberato, nonostante la sconfitta di Mussolini nelle urne: segno dei buoni rapporti esistenti tra esercito e fascismo. Però mio padre non si iscrisse al Partito nazionale fascista perché si definiva liberale e i suoi amici erano in genere afascisti o antifascisti.

    (1. Continua domani sul Foglio in edicola)

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