I tre buoni motivi che hanno spinto l'Iran a liberare R. Saberi

Tatiana Boutourline

Dopo tre mesi di prigionia e due settimane di sciopero della fame Roxana Saberi è libera. Arrestata a gennaio per aver comprato una bottiglia di vino, la trentaduenne giornalista irano-statunitense è stata prima fermata con l'accusa di aver lavorato senza le necessarie autorizzazioni e successivamente accusata di essere una spia.

    Dopo tre mesi di prigionia e due settimane di sciopero della fame Roxana Saberi è libera. Arrestata a gennaio per aver comprato una bottiglia di vino, la trentaduenne giornalista irano-statunitense è stata prima fermata con l'accusa di aver lavorato senza le necessarie autorizzazioni e successivamente accusata di essere una spia. Il 18 aprile la Corte rivoluzionaria l'ha condannata a 8 anni di carcere. La sua detenzione ha rappresentato un ostacolo alle ipotesi di “engagement” con l'occidente e la sua liberazione può aprire il campo a nuovi scenari. E' troppo presto per dire che i mullah sono stati ammansiti dall'Obama-style, ma è indubbio che ogni gesto di distensione rilancia il partito del dialogo.

    La liberazione di Saberi è soprattutto frutto di un'oculata gestione del caso da parte di Washington e del clima che si respira nei palazzi del potere iraniani. A Teheran le elezioni presidenziali sono alle porte – il 12 giugno – e il regime si prepara a misurare i rapporti di forza tra le diverse fazioni. Il braccio di ferro tra i pasdaran e gli esponenti della nomenklatura clericale è in corso e l'investitura dell'ayatollah Ali Khamenei è ancora tutta da guadagnare. Le relazioni con Washington sono il principale tema di dibattito degli insider di regime. Chi ricopre incarichi di governo o aspira a occuparli si professa con modalità diverse  disponibile alla trattativa. E' vivo nella memoria il ricordo della morte di Zahra Kazemi, la fotografa iraniana naturalizzata canadese rinchiusa nella prigione di Evin nell'estate del 2003 e uccisa durante la detenzione. I responsabili individuati da un'inchiesta durante la presidenza Khatami non hanno mai pagato. L'episodio si rivelò devastante per le relazioni tra l'Iran e il Canada.

    Un “incidente” o una “improvvisa e mortale malattia” della Saberi avrebbe rischiato di compromettere l'immagine e gli affari di Teheran (più delle lapidazioni e delle impiccagioni di cui sono vittime i cittadini iraniani). Un boomerang inaccettabile. La Repubblica islamica spesso manda avvertimenti di natura disparata per far capire che potrebbe fare molto male, poi però, quando e se conviene, si mostra “magnanima” (come con i marinai inglesi). Prolungare la prigionia di Saberi sarebbe stato uno schiaffo a Washington, e Teheran si muove meglio in situazioni più ambigue. In questo caso poi i maggiorenti del sistema erano quasi tutti d'accordo. I riformisti che hanno criticato il suo arresto e Ahmadinejad che, alle prese con una corsa elettorale più complessa del previsto, non soltanto non ha posto veti, ma ha invitato la magistratura a rispettare i diritti della difesa durante il processo d'appello. Il caso Saberi è “un esempio di come si possano sfruttare la vita umana e la libertà per ottenere vantaggi politici”, ha commentato Mohammed Ali Abtahi, ex collaboratore di Khatami ora consigliere del candidato riformista Medhi Karrubi. Secondo fonti del Foglio a Teheran, il regime auspicava una richiesta ufficiale da parte di Barack Obama per la liberazione di Saberi che le autorità iraniane avrebbero presentato come una richiesta di aiuto, un sintomo di debolezza.

    Ma il 20 aprile Hillary Clinton ha evocato l'ipotesi di misure contro Teheran e al Congresso un folto gruppo di democratici si è unito ai repubblicani nell'invocare nuove sanzioni. Gli Stati Uniti hanno lanciato due mediazioni: la prima “umanitaria” affidata a Jessy Jackson e la seconda con il ministero degli Esteri giapponese (Saberi è di madre giapponese e Tokyo è un cliente importante per il petrolio iraniano). Entrambe si sono risolte con un nulla di fatto. Dai primi di maggio i toni dell'Amministrazione Obama si sono fatti più perentori. Nel frattempo a New York è finito in guai seri Farshid Jahedi, uomo di punta della penetrazione iraniana in America. Capo della fondazione Alavi (un ente cultural-caritatevole sospettato di gestire dagli Stati Uniti il finanziamento alla rete terroristica dei mullah), Jahedi è stato arrestato a dicembre con l'accusa di riciclaggio. La settimana scorsa, un procuratore americano ha evocato la possibilità di una condanna a 30 anni. Una condanna che avrebbe reso ancora meno percorribile di quanto già non sia l'ipotetico scongelamento dei beni iraniani in America.