Parole nuove e tradizionale diplomazia vaticana nel giorno palestinese di Ratzinger
Giunto come “pellegrino di pace”, era prevedibile che per Benedetto XVI attraversare il muro che a suo dire simboleggia “il punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra israeliani e palestinesi” avrebbe inevitabilmente significato anche passare dal piano a lui più congeniale del dialogo religioso, del giudizio sulla Storia, al terreno duro e insidioso della contingenza politica.
Giunto come “pellegrino di pace”, era prevedibile che per Benedetto XVI attraversare il muro che a suo dire simboleggia “il punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra israeliani e palestinesi” avrebbe inevitabilmente significato anche passare dal piano a lui più congeniale del dialogo religioso, del giudizio sulla Storia, al terreno duro e insidioso della contingenza politica. La giornata del Papa nei Territori dell'Autorità palestinese, apertasi con la visita a Betlemme, è stata scandita da parole scelte con cura dal Pontefice e dalla diplomazia vaticana, ma probabilmente non tutte destinate a ricevere accoglienza positiva da parte dei governanti di Israele e della sua opinione pubblica.
A partire dall'esplicita richiesta di “togliere l'embargo” da Gaza, formulata durante la Messa celebrata sul piazzale della Natività: “Il mio cuore si volge in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra”, ha detto Benedetto XVI: “Siate sicuri della mia solidarietà con voi nell'immensa opera di ricostruzione che ora vi sta davanti e delle mie preghiere che l'embargo sia presto tolto”. Ad accoglierlo a Betlemme c'era il presidente palestinese Abu Mazen, che ha denunciato nel suo saluto “coloro che continuano a costruire muri di separazione invece che ponti” (citazione di Giovanni Paolo II nel suo viaggio del 2000, questa dei muri e dei ponti, riecheggiata più volte nella giornata di ieri). Ma addirittura più duro è stato il saluto del patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal: “Quando noi abbiamo accolto il Suo predecessore, avevamo la speranza di pervenire alla pace, ma questa pace non è mai venuta”, ha detto, e “finché l'instabilità politica perdura, finché si estende il muro che separa Betlemme da Gerusalemme e dal resto del mondo, noi non potremo trovare la pace per la nostra terra”. La rispsosta del Papa era stata l'invito ai cristiani palestinesi a essere “un ponte di dialogo e di collaborazione costruttiva nell'edificare una cultura di pace che superi l'attuale stallo della paura, dell'aggressione e della frustrazione”. E aveva concluso: “Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura”.
Ma già ieri mattina le agenzie ribattevano soprattutto un'altra frase pronunciata da Benedetto XVI nell'incontro con Abu Mazen: “La Santa Sede sostiene il diritto del vostro popolo a una patria palestinese sovrana, sicura e in pace con i vicini” e con confini internazionalmente riconosciuti. Da un lato, si tratta di una conferma della tradizionale impostazione del problema da parte vaticana; ma dall'altro, come già ieri era stato notato da qualche commentatore, la scelta della parola “homeland”, patria, al posto del più neutro “stato” è suonata all'esasperata sensibilità mediorientale come un più convinto segnale di adesione da parte di Benedetto XVI all'impostazione della sua diplomazia. Dopo l'embargo e la patria, il momento politicamente più delicato e ad alto contenuto simbolico è stata nel pomeriggio la visita all'Aida Refugee Camp di Betlemme; visita inevitabilmente destinata a mettere sul tappeto anche la dirompente questione del rientro dei profughi, impossibile per Israele e irrinunciabile per i palestinesi, nodo inestricabile su cui di fatto andarono in fumo gli accordi quasi raggiunti ai tempi di Clinton e Arafat. C'erano striscioni inneggianti al ritorno a casa dei profughi e di denuncia della “Nakba”, la “distruzione” del 1948.
La fotografia dell'automobile papale che passa di fianco allo sbarramento difensivo costruito da Israele a protezione del suo territorio campeggiava ieri pomeriggio, in modo polemico, sul sito del Jerusalem Post. Benedetto XVI aveva anticipato già in mattinata il senso della sua presenza in quel luogo, senza nascondere il senso del suo pensiero: “La mia visita al campo profughi di Aida mi dà la gradita possibilità di esprimere la mia solidarietà a tutti i rifugiati palestinesi che da lungo tempo non possono tornare nella loro terra natale, o vivere in modo permanente in una loro propria patria”. Alle migliaia di profughi ha detto: “Voi vi sentite intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue”, e aveva citato le parole di Giovanni Paolo II: “Non vi può essere pace senza giustizia, né giustizia senza perdono”.
Una giornata di parole rivolte al mondo della politica e non alla fede, quelle di ieri, che hanno riscosso lo scontato entusiasmo della dirigenza palestinese, ma i cui effetti sul fronte israeliano andranno probabilmente misurati nei prossimi giorni, in un clima sempre fatto anche di sottili diffidenze. Ieri facevano testo le parole di Shimon Peres intervistato dall'Osservatore Romano: “Ciò che comincia a emergere in medio oriente è una tendenza a non essere più soddisfatti da accordi bilaterali, ma a cercare accordi regionali per la pace e la coesistenza pacifica, comprendendo che la democrazia moderna non è il diritto a essere uguali, ma l'eguale diritto a essere differenti. Dove tutte le preghiere possano salire al cielo”.
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