Retorica xenofila

Toni Capuozzo

A me pare che il pericolo sia la crescita di una retorica xenofila, vuota e destinata a rovesciarsi nel suo contrario, e cioè a produrre più razzismo, più ostilità nei confronti degli immigrati, più emarginazione, minor integrazione.  In questi giorni per strada, a scuola e davanti a scuola, nei bar, sui mezzi pubblici, ho ascoltato e qualche volta sollecitato sconosciuti e conoscenti sulla questione dei respingimenti verso la Libia dei barconi degli immigranti clandestini.

    Vabbè, adesso basta. Ieri sera sento il presidente della Repubblica, nell'intervallo della finale di coppa Italia esprimersi a favore dell'idea che le partite di calcio vadano sospese, al primo coro razzista. Facile immaginare che pugnale dalla parte del manico si offra così a ogni tifoseria becera e prepotente, in casa o in trasferta, libera, insieme, di épater le bourgeois e di mandare tutti i ventidue a prendere un tè caldo negli spogliatoi. Tra il dire e il fare, tra l'indignarsi davanti a slogan beceri e combatterli con efficacia, c'è la differenza che corre tra il dover essere e il poter essere, tra la declamazione di principio e la buona, realistica pratica. Oggi leggo che Napolitano lamenta il crescere di retorica antixenofoba. A me pare che, anche grazie a lui, il pericolo sia la crescita di una retorica xenofila, vuota e destinata a rovesciarsi nel suo contrario, e cioè a produrre più razzismo, più ostilità nei confronti degli immigrati, più emarginazione, minor integrazione.

    In questi giorni per strada, a scuola e davanti a scuola, nei bar, sui mezzi pubblici, ho ascoltato e qualche volta sollecitato sconosciuti e conoscenti sulla questione dei respingimenti verso la Libia dei barconi degli immigranti clandestini. E constato una singolare differenziazione, abbastanza netta, nel giudizio: studenti, professori, intellettuali sono contrari. Tassisti, operai, baristi, commessi sono a favore. E che è: una nuova, singolare lotta di classe? O il lusso di chi può permettersi la tolleranza e la paura di chi stenta a barcamenarsi? Non credo: piuttosto, è il contrasto tra il dover essere e il poter essere, tra chi ragiona in base ai principi e chi conclude in base alla realtà. A convincermi di questo, le poche volte che esprimo una mia obiezione, è la risposta. Anche i contrari al respingimento, quando si obietti che allora dev'essere evitato anche il respingimento alle frontiere di terra, che è pratica quotidiana senza clamore né scandalo, dicono che no, quello è altra cosa. Il respingimento marino, per così dire, ha a che vedere con la memoria insopportabile dei cadaveri in acqua, con le immagini bibliche dei naufragi, con l'idea stessa del soccorso in mare e dell'ostilità, per quanto magnifica dell'ambiente (non è un caso che incrociandosi su un sentiero di montagna due persone che sul marciapiedi si schiverebbero, si salutino).

    Il fatto è che la retorica xenofila (falsamente xenofila, in realtà) risponde all'immagine che vogliamo dare di noi stessi a noi stessi e agli altri: buoni, generosi, aperti. E l'antiretorica di tanta gente comune, più libera da ideologie e oculata gestione della propria immagine, del proprio dover essere, risponde al buon senso, quando non è insidiata da pulsioni razziste che sono incentivate dalla irresponsabilità della correttezza politica. Dunque: perseguibile o no, l'immigrazione che viene dal Canale di Sicilia è illegale. E una volta che stabilisci questo, devi fare in modo di essere conseguente, devi fermarla, senza contraddire il diritto internazionale e la tua stessa idea del diritto e dell'umanità. Per me questo vuol dire che è legittimo e persino giusto rinviare i barconi, quando lo si può fare senza pericolo per chi vi si è imbarcato, al porto di partenza. Con una eccezione: chi avanza domanda di asilo politico.

    Ora, è noto che chiunque ha diritto di avanzare domanda di asilo politico (ho visto persino inequivocabili prostitute farlo negli uffici delle questure, senza che questo togliesse nulla allo scenario, peggiore della persecuzione politica, della schiavitù dello sfruttamento sessuale). E allora i casi sono due: o si trasforma un centro italiano di prima accoglienza in un centro di sosta in attesa dei tempi di concessione o rifiuto dell'asilo politico – con conseguente accoglienza o allontanamento – o si appronta, in accordo con la Libia, un centro analogo nel paese dirimpettaio. Questa è l'unica soluzione, perché, posto che le cose come stanno ora non possono restare immutate, l'alternativa è che, se si accolgono tutti, non ha senso sottoporli al dominio dei trafficanti e al rischio della traversata.

    Perché non andare a prenderli, i migranti, con un traghetto della Tirrenia? E se si promuove questa disponibilità matura e conseguente all'accoglienza, perché non chiedersi quale diritto in più debbano avere quelli che hanno pagato il viaggio rispetto a quelli che non possono pagarselo. I più disperati non tentano neppure la traversata del deserto. Allora perché non rinunciare ai traghetti Tirrenia e fare dei voli direttamente da L'Asmara, Addis Abeba e tante altre capitali? Non è un ragionamento assurdo, è un'ipotesi che ci avvicina a ciò che renderebbe davvero credibile il respingimento alle frontiere. Perché se vogliamo davvero ridurre all'eccezionale la migrazione clandestina, l'unico modo realistico e autentico di farlo, è governare l'immigrazione legale. Aprire le cancellerie dei visti, concederli in ragione di quote annuali, accompagnarli da corsi di lingua e di cultura, pavimentare insomma una strada di immigrazione che abbia l'imprinting dei diritti e dei doveri, e non quello del disordine illegale. Ovviamente, è una strada troppo impegnativa, minuziosa, pragmatica e fantasiosa per chi ragiona per slogan, per battaglie politiche, per lotte fini a se stesse. Meglio accogliere, e nascondere in cantina, una xenofilia come certi matrimoni: fiamme all'inizio, e disinteresse dopo.