L'intreccio tra teologia e diplomazia nel viaggio di B-XVI
Il professore Guy Stroumsa ha qualche riserva. Dice che il Papa è stato “blando”, e secondo lui “avrebbe potuto essere un po' più specifico nei riferimenti alla Shoah”. Eppure ha seguito la visita di Benedetto XVI con grande emozione.
Il professore Guy Stroumsa ha qualche riserva. Dice che il Papa è stato “blando”, e secondo lui “avrebbe potuto essere un po' più specifico nei riferimenti alla Shoah”. Eppure ha seguito la visita di Benedetto XVI con grande emozione. Storico del cristianesimo primitivo, ha la cattedra Martin Buber di religione comparate nell'Impero romano, e si dice commosso alla vista delle bandiere biancogialle a Gerusalemme. “L'altro ieri stavo salendo al Monte Scopus e sono rimasto impressionato. La visita del Papa non accade ogni giorno. Se il capo del Vaticano arriva in Israele vuol dire che qualcosa è cambiato. E' un segno di normalizzazione: ebrei e cristiani hanno superato le tensioni di un tempo, questo viaggio è un segno di speranza”.
Certo, Stroumsa non si fa illusioni. Anche lui è convinto, come lo è il rabbino David Rosen, che si debba insistere sul carattere “religioso e morale” della visita, “piuttosto che sul suo ruolo di mediatore politico”. “Ai fini del processo di pace il viaggio di Benedetto XVI è irrilevante. Può contribuire alla pace ma non è questo il suo obiettivo prioritario”. I cristiani in Israele sono una minoranza. “I cristiani, palestinesi o arabi israeliani, in molti casi sono frustrati. Sperano in un cambiamento, ma senza farsi illusioni. La visita di Benedetto XVI è una visita allo stato di Israele oltreché ai cristiani di Palestina, molti dei quali fra l'altro non sono cattolici: per loro il Papa si rivolge agli ebrei più che agli arabi. Io invece penso che parlerà sia agli uni sia agli altri”. Il Papa ha parlato di “vincolo indissolubile” tra cristianesimo e popolo ebreo: si tratta di un'evidenza per Stroumsa che da anni studia il rapporto di filiazione tra il cristianesimo primitivo e il giudaismo e in “La fine del sacrificio” (Morcelliana) ha spiegato la nascita del monoteismo per effetto di una trasformazione inerente allo stesso giudaismo: “Cristianesimo e giudaismo hanno legami indissolubili, anche se gli arabi cristiani vorrebbero dissolverli. Il cristianesimo è molto più vicino al giudaismo di quanto non lo sia all'islam”.
Quanto al contenuto più politico della visita del Papa a Gerusalemme, che per alcuni potrebbe avere benefiche ripercussioni sullo statuto stesso della città santa, con una sorta di vaticanizzazione della cittadella vecchia, Stroumsa è cauto: “Penso che per il Vaticano non fosse ovvio avere rapporti con lo stato ebraico. Gerusalemme come Capitale resta una scelta teologicamente difficile per i cattolici, là dove noi israeliani non abbiamo alcun approccio teologico. Noi vogliamo solo avere rapporti diplomatici con chiunque sia disposto a riconoscere lo stato ebraico, e stringere rapporti col Vaticano è di vitale importanza. Del resto, è un fatto di assoluta novità, se pensiamo che ancora oggi a Roma c'è un'iscrizione in ebraico incisa sulla facciata di una chiesa che ricorda agli ebrei la venuta del Messia e costituisce un perfetto esempio di umiliazione giudaica, che noi ormai ci siamo lasciati alle spalle”.
Dovevamo aspettare la fine della religione nella sua potenza politica e temporale per superare l'umiliazione giudaica da parte dei cristiani? “Dovevamo aspettare i tragici eventi del XX secolo – risponde Guy Stroumsa – la distruzione dell'Europa, e degli ebrei d'Europa, la fondazione di Israele. La chiesa ha accettato il fatto che gli ebrei non sono più suscettibili di conversione. Siamo entrati in un mondo religioso multiplo, pluralista. Nessun cattolico oggi pensa che siccome Gesù è morto per salvarci, noi ebrei dobbiamo riconoscerlo altrimenti siamo sulla lista nera. Nessuno più ha il monopolio della verità: lo hanno perso ebrei, cristiani, e musulmani. E' un dato di fatto dal quale non possiamo più prescindere. E il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa lo dimostra”.
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