L'amourinho nostro/2
Josè Mourinho
Una poltroncina blu giusto in linea con la panchina. Lord Richard Attenborough si siede a Stamford Bridge ogni quindici giorni. “Mourinho? Se immaginassi un film sul mio Chelsea, lo penserei così: Didier Drogba interpretato da Harrison Ford, Peter Cech da John Wayne, Peter Kenyon da Spencer Tracy, José da Marlon Brando. Il massimo”.
2. Scusate se sono arrogante
Una poltroncina blu giusto in linea con la panchina. Lord Richard Attenborough si siede a Stamford Bridge ogni quindici giorni. “Mourinho? Se immaginassi un film sul mio Chelsea, lo penserei così: Didier Drogba interpretato da Harrison Ford, Peter Cech da John Wayne, Peter Kenyon da Spencer Tracy, José da Marlon Brando. Il massimo”. C'è una squadra prima di Mourinho e una dopo, c'è una Londra pre José e una post José. C'è stata diffidenza, amore, passione, orgoglio, rottura, distacco, nostalgia. Lord Attenborough guarda il suo stadio, la sua squadra e la sua città, vede quello che c'era e che non c'è. E' come se sia finito lo spettacolo perché l'Inghilterra s'è nutrita di Mou e ora ne sente la mancanza. Perché lui è diventato se stesso al quadrato lì.
Dall'inizio, dal 2 giugno 2004, quando il suo volo Tap arrivò con tre minuti di ritardo e lui sbuffò appena seduto sul banchetto della conferenza stampa allestito in una saletta lounge di Heatrow. Niente traduttore. “Scusate. Se avessi voluto una vita semplice sarei rimasto in Portogallo, su una poltrona blu con la Coppa dei campioni sotto i piedi. Dio e dopo Dio, io. Invece sono qui, in una squadra con grandi giocatori e, scusate se sono arrogante, anche un allenatore speciale”. Lo special one è cominciato lì, con i giornali inglesi irritati dalla sua sicurezza, dal suo modo di fare, dalla consapevolezza di trovarsi di fronte a uno che gli avrebbe insegnato qualcosa. quel giorno l'allenatore campione d'Europa s'è trasformato in un guru, in un rivoluzionario. L'ha scelto, l'ha voluto, l'ha fatto. S'è preso sul serio per farsi prendere sul serio dagli altri. Perché gli altri allenatori stranieri si presentano timorosi del calcio degli inventori e lui, invece, è arrivato da migliore senza dover chiedere permesso per entrare. L'hanno voluto, non s'è proposto. L'hanno pagato. L'Inghilterra ha cercato di annientarlo dal giorno dopo, l'ha irriso e alla fine però se ne è dovuta innamorare. Neanche in Portogallo lo adorano così, oggi: in quattro anni sono stati pubblicati sei libri su di lui, sono stati girati una dozzina di documentari, è stato scavato ogni particolare e ogni dettaglio. Lord Attenborough continua a guardare e prendere appunti: non farà mai un film sul Chelsea e comunque non con gli attori che sogna. Però sta sempre lì, sabato o domenica che sia: sulla poltroncina di Stamford Bridge in direzione della panchina, dove una volta c'era José e dove oggi si siede Guus Hiddink. Mourinho ha stravolto una città e un calcio abituato poco a un allenatore protagonista. Gli inglesi hanno raccontato Sir Matt Busby, Bill Shankly, Bob Paisley, Alex Ferguson: un secolo e mezzo per ricordare quattro tecnici. José ha ribaltato la prospettiva: il mister c'è, il mister comanda, il mister non è solo il guardiano di un gruppo.
Con lui è cambiato tutto: Wenger e Benitez l'hanno criticato eppure si sono alimentati del suo modo di fare. Perché Mourinho ha dato dignità a loro nonostante le liti, ha obbligato i giornali a parlare più dei manager che dei calciatori, a ricordarsi che le squadre funzionano se si allenano, se girano, se hanno un'idea, se a un mister gli dai la gente giusta e non se cerchi l'uomo che metta insieme gente sbagliata. “Lo stile è importante, ma è come le omelette e le uova. Avete presente un'omelette? Senza uova non c'è omelette e se ci sono le uova poi c'è omelette e omelette. Dipende dalle uova. Se vai in un supermercato e trovi uova di prima, seconda e terza scelta, alcune saranno più costose di altre, ma daranno un'omelette migliore di altre. Ecco, se non puoi comprare le uova migliori, allora hai un problema”. A Londra Mou ha dimostrato questo e pure il contrario. S'è divertito a gestire il Chelsea come il suo supermercato dove ha deciso lui quali fossero le uova di prima seconda e terza scelta. S'è trovato nel club economicamente più potente del mondo in quel momento: avrebbe potuto permettersi tutti, perché Abramovich gli avrebbe comprerebbe chiunque. No, lui i più famosi che aveva a Londra li ha cacciati: Mutu, Veron e Crespo. S'è tenuto Carvalho, Robben, Cole, Lampard, Drogba. Tutte le X e le Y, ex anonimi o quasi che con lui si sono trasformati in campioni. Chi era Frankie Lampard prima di José? Il miracolo di Chelsea è stato dimostrare che un allenatore come lui può essere contestato a priori dalla stampa o dai salotti, ma quando entra nello spogliatoio è considerato il capo.
Mou è stato amato e venerato, considerato uno che sta sempre dalla parte dei giocatori. L'hanno difeso come se fosse un padre, uno zio, un fratello, un cugino. Quando accusò l'arbitro Frisk di aver complottato con Rijkaard prima della partita Chelsea-Barcellona, i suoi calciatori si misero tutti insieme a proteggerlo. Cominciò proprio Lampard, a cascata arrivarono tutti gli altri. Lui come Robin Williams ne “L'attimo fuggente”, loro tutti sulla scrivania per protesta: “Capitano mio Capitano”. Gli unici a non essersi impressionati sono stati gli arbitri europei che contro Mourinho a un certo punto volevano indire uno sciopero. Alla fine, dopo lo show anti Barcellona, dopo gli insulti agli avversari, dopo un'inchiesta Uefa, gli diedero due giornate di squalifica. La stessa che avrebbero voluto dargli in Inghilterra, dopo la finale di coppa di Lega a Cardiff contro il Liverpool, quando per festeggiare la vittoria cominciò a sfottere i tifosi dei Reds. Arrivò la polizia per trascinarlo fuori dal campo, portarlo negli spogliatoi. A ogni bivio, gli inglesi gli rinfacciavano tutto. L'hanno censurato, criticato, attaccato. Mou dipinto come peggiore solo perché faceva quello che gli inglesi non hanno più avuto il coraggio di fare: protestare, arrabbiarsi, sfogarsi. E' come se loro si rivedessero in lui sapendo che si erano dati un contegno solo dopo i disastri combinati negli anni Ottanta dagli Hooligans. Si sono illusi di essere migliori e lui ha tolto il loro velo di ipocrisia.
L'Inghilterra è stata una conquista, è stata la consacrazione. Ha litigato, ha parlato, ha giocato, ha vinto. “Non siete abituati a uno come me, così aperto. Uno che si comporta come ritiene giusto, che non ha paura di esprimere che cosa prova e che cosa pensa, anche se sembra scorretto. Sarebbe molto più comodo e facile per me, dire che i conti si fanno alla fine, che tutto è possibile. Così non avrei problemi. Vi direi soltanto quello che siete stati abituati a sentire sempre fino a oggi. Invece io dico che vinceremo il campionato e voi pensate che sia una commedia, una presa in giro, una mancanza di rispetto e umiltà. Ma io non cambio: se mi sarò sbagliato, me lo rinfaccerete, ma preferisco essere così. Sincero”. S'è offeso solo per la famosa storia del cane, per il quale si fece una notte in cella: la polizia bussò a casa sua a Belgravia chiedendo di poter prendere il suo Yorkshire che aveva trasgredito la quarantena imposta agli animali “stranieri” da una legge ottocentesca. Mou fece scappare il cane e fu portato dentro. Poi uscì e parlò: “Mia moglie è in Portogallo, il mio cane è in Portogallo così Londra ora è una città sicura. Il grande terrore non c'è più”. Il bisticcio come specialità, la provocazione come obiettivo.
L'Inghilterra ha maturato il Mourinho massmediatico. Il look è stato trasformato in un punto di forza sapendo che avrebbero abboccato. L'American Express per averlo come testimonial ha tirato fuori tre milioni di euro all'anno. Susannah Frankel dell'Independent ha convinto mezza Londra e poi mezza Inghilterra che vestirsi e atteggiarsi come mister Mourinho ti renda migliore: allora ci vuole il cappotto, l'orologio, le scarpe, l'abito, la camicia e la cravatta di José. Un paese abituato all'atteggiamento metrosexual di David Beckham ha riscoperto l'uomo un po' truce e un po' incazzoso. “L'uomo è un feromone ambulante”, ha scritto di lui nell'era Chelsea la scrittrice Jessica Callan. “Quello che non sono mai riuscita a capire è come sua moglie abbia fatto a vincere questa lotteria. Il suo sex appeal non richiede sforzi di stile, bastano i suoi capelli sale e pepe tagliati sempre precisi e l'arroganza un po' sbruffona. José sembra sexy persino quando cammina con il suo cagnino, maledizione. Chiunque si riferisca a se stesso come speciale fa ridere, però la stessa frase detta da lui sembra giusta, anzi sacrosanta. Mi ricordo di averlo visto accompagnare suo figlio alla prima degli Incredibili a Leicester Square: stava sorridendo e sorridendo rivelò le sue fossette. Improvvisamente, il Mourinho col ghigno era altrettanto sexy quanto quello buono e affettuoso. Ora, dopo che se ne è andato, si sente la sua mancanza: tre anni nel nostro calcio e nel nostro paese l'hanno trasformato nella celebrità numero uno. Se vogliono restituircelo, non vedo l'ora di riprenderlo”.
Il pallone è più lento delle donne. Ci è arrivato lo stesso, però. La nostalgia di Mou è il fantasma che opprime i week-end del calcio inglese. Alla fine lo ha ammesso pure Alex Ferguson: “Mi piaceva vederlo in tv, sfrontato, pieno di sé, bravo. E' stato una perdita per il nostro calcio”. Gli altri non parlano perché hanno paura. Ferguson no: è l'unico che non sente il peso dell'inferiorità. La vita senza Mou ha reso l'Inghilterra più banale e non solo televisivamente. Ora sanno di aver perso un personaggio che rendeva il loro calcio più fico di quello che è. Mentre hanno fatto di tutto per odiarlo, si sono legati a lui quanto neanche avrebbero immaginato. L'hanno fatto con Zola e poi con José: sanno che s'alzava ogni mattina alle otto, che ci metteva 40 minuti per andare al campo di allenamento di Cobham, l'hanno visto passeggiare e giocare tranquillamente ad Hyde Park con i figli José Junior e Matilde Junior.
Mamma quanto gli manca. Da quando è andato via sono comparsi gli striscioni allo stadio e non c'è un solo giornale o una sola tv che non abbia fatto la raccolta delle sue frasi celebri. Lui e se stesso, lui è il Chelsea, lui e gli avversari, lui e la famiglia, dicono di lui. Una specie di culto della personalità impossibile da ammettere negli anni in cui lui raccontava agli inglesi quanto fossero provinciali e che è diventato straordinariamente facile da accettare adesso che non c'è più. Londra è buia, perché Scolari era burbero e pieno di sé, ma non aveva un briciolo del carisma di José. Grant, il suo vice, era più misterioso di lui, ma l'Inghilterra s'è appassionata solo per il fatto che fosse sposato con una signora che aveva bevuto la pipì in diretta televisiva. Hiddink piace, ma guarda caso solo perché gioca come José ed è un po' guru come José. La parabola è completa: ascesa, declino, risalita. Mandarlo via con trentacinque milioni di sterline in tasca è stato l'errore più grande della Premier League. Al telefono gli opinionisti londinesi si spaventano dei paragoni che fanno. “Questa città non è più la stessa perché non c'è Mourinho. E' una questione calcistica, ma non solo”. Ad aprire la discussione è stato un paio di mesi fa Brian Viner sull'Independent. “Sarà un caso, però nell'era Mourinho Londra è stata la capitale del calcio mondiale e contemporaneamente ha cominciato a fare una gara per diventare capitale del mondo. Se ne è andato lui e la città è in crisi”. Il credit crunch di José.
L'esagerazione rappresenta lo stato d'animo, la malinconia di sapere che c'era e non c'è più. E' vero: Mou è arrivato a Londra nel momento più alto della storia contemporanea della città. I giornali scrivevano così: la rincorsa su New York, qual è la città più importante del pianeta? Londra è la carta velina: quanto le è piaciuto fare l'anti New York. Per dieci anni non ha fallito niente: il boom inarrestabile del mercato immobiliare, il grande affare delle Olimpiadi, la nuova immagine da città chic, la calata dei nuovi ricchi pronti a comprarsi tutto. “Il parco giochi del pianeta”, l'avevano chiamata. E tutti a raccontare il derby con l'altra parte dell'Atlantico. New York, quindi. Manhattan. Tre anni di corsa, con la City a pompare denaro e con il pallone a fare da specchio della società, con i soldi di Abramovich, quelli della Emirates che sponsorizza l'Arsenal, quelli della Bear Stearns che dominava il Tottenham, quelli di Al Fayed per il povero Fulham. Una vita a mille all'ora con José davanti a tutti. Sembrava una destinazione ovvia, una relazione simbiotica. Londra e Mou, cioè arrogante lei e arrogante lui, fica lei e fico lui, bella lei, bella lui. Lei aveva bisogno di lui e lui di lei.
Adesso gli inglesi che raccontano il buio dell'anima britannica hanno paragonato il pallone a Canary Wharf. Si spengono le luci, si abbassa il volume. Il momento è il tramonto: la gente esce dagli uffici e va a farsi una birra. Andava, cioè. “Il giorno del crollo di Lehman Brothers è cambiato tutto”. Per il mondo del pallone il giorno in cui se ne è andato José è stato lo stesso, però se ne sono accorti adesso che torna da avversario amico. Viner ha aperto un'autostrada: da un mese e mezzo ogni opinionista che racconti il calcio inglese dice la stessa cosa, che lasciar andare Mourinho ha cambiato il calcio in peggio. Malinconia. “Non ci pensavamo allora. Ci sentivamo più bravi degli altri. Migliori dell'Italia, della Spagna, della Germania. E ora? Ora niente. Ora è il rimpianto e forse il destino. E' finita. Hanno contato quante volte i giornali scrissero il tre giugno 2004 questa frase su di lui: “E' una boccata di aria fresca in un mondo senza niente da dire”. Sono passati quattro anni e mezzo, sono arrivati 22 allenatori nuovi. Inglesi e stranieri. In tutto la stessa frase è stata scritta una sola volta.
(2. continua)
Il Foglio sportivo - in corpore sano