Ecco l'inchiesta che ha fatto arrabbiare Gad / 2

Lo strano caso del dr Lerner e mr Siegel

Marianna Rizzini

Il 12 maggio scorso è entrato nel vivo il processo che oppone Gad Lerner al conduttore di Radio Padania Leo Siegel. L'accusa, “istigazione all'odio razziale”, meritava un approfondimento. Siamo andati a vedere chi è Leo Siegel, che cosa dice, che cosa pensa.

    C'è un processo in cui si deciderà se esista, oggi, un modo proibito di parlare di immigrazione, xenofobia, sicurezza. Un processo per diffamazione a mezzo stampa aggravata dalla presunta istigazione all'odio razziale nei confronti della comunità rom. Attorno a questo processo c'è una storia che parla di due uomini. L'uomo Rispettabile si chiama Gad Lerner, il giornalista democratico ascoltato, citato e stimato da migliaia di lettori, colleghi e telespettatori, solitamente restio, dice, a querelare per reati d'opinione. L'uomo di “Pinocchio” e “Milano, Italia”, la firma di Repubblica, l'ex vicedirettore della Stampa ed ex direttore del Tg1, l'ex giornalista dell'Espresso, del Manifesto e molti anni prima di Lotta continua, lo scrittore di un pamphlet sul meticciato socio-culturale, il candidato alle primarie milanesi del Pd con cui amavano confrontarsi il banchiere Alessandro Profumo e sua moglie, la bindiana Sabina Ratti, manager Eni. Il Rispettabile, cioè Gad, è il conduttore tv più apprezzato nel giro Brera-Corriere della Sera (dove le asprezze di Michele Santoro paiono, sinceramente, troppo). E' il punto di riferimento della Milano che va volentieri in bicicletta come Marco Tronchetti Provera, e si scopre volentieri ecologista come Milly Moratti, e va volentieri alla Fiera dei fiori ai Giardini pubblici a incontrare, con sereno sorriso bipartisan, Afef e Daniela Santanchè, e va al girotondo e al teatro e al cinema e alla Scala e a bere buon vino senza sfarzi ma in assoluta raffinatezza. Gad è il pensiero rispettabile della Milano rispettabile che mette al balcone la bandiera della pace ma discute con civiltà di guerre di civiltà e non odia nessuno – neppure George Bush, neppure Silvio Berlusconi – e porta belle collane etniche su tessuti discreti ma pregiati, e rispetta e pretende rispetto ma non alza mai la voce.

    Una Milano che abita, nascosta, in palazzi antichi con atrio spazioso e bel cortile insospettabile, e d'estate va in India, Indonesia e Tanzania con enorme rispetto per gli abitanti, gli usi e i costumi. Una Milano che sta dalla parte giusta e ha idee giuste, ragionevoli, pulite, moderate, ragionate, accettate e democraticamente accettabili in società. L'uomo rispettabile – Gad – è un ex apolide nato a Tripoli da famiglia ebraica, stabilitasi in Palestina prima della nascita di Israele. E', come ama scrivere di sé, un “meticcio, cosmopolita, bastardo e infedele” – perché è nel sentirsi “bastardo” che nasce l'esercizio e la promozione della tolleranza. Gad il rispettabile oggi è preoccupato. Molto preoccupato. Sente serpeggiare un sussurro xenofobo anzi un bercio anzi un insulto anzi un insieme di insulti che gli ricordano un brutto passato: non solo il preludio dell'Olocausto, ma anche il preludio agli anni di piombo, dice. Si preoccupa, Gad, e teme che “dalle parole si passi ai fatti”.

    Le parole sono quelle dette, in un giorno del settembre 2007, dall'altro uomo coinvolto nel processo, un Impresentabile nel mondo dei Rispettabili. L'Impresentabile si chiama Leo Siegel, conduttore di Radio Padania, giornalista e allenatore di calcio e hockey, più volte candidato ed eletto per la Lega alle amministrative. Un reduce da un altro passato, da un'altra realtà, da una catacomba che sulle mappe del mondo rispettabile non esiste. Uno che è sempre stato dalla parte che ai rispettabili e a chi si sente sinceramente democratico appariva e appare sbagliata – ineducata, pericolosa, diversa, sgradevole: nell'Msi negli anni Settanta, nella pancia della Lega oggi.

    L'Impresentabile dice cose che ai Rispettabili, e in generale a chi si sente sinceramente democratico, appaiono indicibili, inascoltabili, irricevibili. L'Impresentabile parla con (e come) la gente che a Eugenio Scalfari sembra un'invenzione retorica: “Bossi ha detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo… ma si vorrebbe sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega”, ha scritto il fondatore di Repubblica domenica scorsa.
    All'epoca dei fatti in esame nel processo, Leo Siegel conduceva un programma chiamato “Il Ribelle”, un filo diretto a Radio Padania Libera. Tuttora Leo Siegel conduce fili diretti, oltre ad allenare la nazionale padana, motivo per cui alla Padania e a Radio Padania i ragazzi giovani – che sembrano non curarsi, nel bene e nel male, del processo per istigazione all'odio razziale in cui è coinvolto il loro beniamino – gli danno pacche sulla spalla e dicono “forza grande Leo” quando Siegel, con i capelli bianchi squadrati sul volto senza sorriso, si trascina, con un'andatura che tradisce gli acciacchi della lunga carriera sportiva, lungo i corridoi dipinti di verde della radio – se non fosse un Impresentabile nel mondo Rispettabile potrebbe sembrare un ex attore di film d'estetica decadente. O forse il volto cupo e l'espressione ripiegata e dolente sono un pegno pagato all'essere stato dalla parte in cui non si doveva stare negli anni Settanta. All'estrema destra. Segretario di sezione missina.

    “Ho visto molti funerali”, dice Siegel – che nel 1975 scrisse sul Candido un pezzo per la morte di Sergio Ramelli, lo studente di estrema destra sprangato da un gruppo di studenti legati ad Autonomia operaia. “Molti funerali” per Siegel significa anche Giorgio Almirante e l'anarchico Valpreda, che Siegel seppe “essersi avvicinato, per alcuni aspetti, al pensiero leghista poco prima di morire”. “Ho visto molti funerali” è una frase che Siegel dice in prima persona, mentre spesso parla in terza persona come a voler guardare da fuori, e con fatica, se stesso – Leo Siegel ha fatto questo, Leo Siegel ha detto questo, dice Siegel persino quando racconta di suo figlio in America e del primo volo per andare a trovarlo, durante il quale Siegel ha visto “Quo Vadis” con sottotitoli in tedesco e ha riempito l'“assurdo questionario in cui ti chiedono se ti droghi o sei terrorista”.

    Parla spesso in terza persona, Siegel, anche quando racconta dei suoi due matrimoni – con la prima moglie è “rimasto amico”, con la seconda divide una casetta in Svizzera ma a volte si chiede: “Avrò fatto soffrire qualcuno, avrò fatto soffrire questa donna?”, rimorso di coscienza che non gli viene, dice, quando pensa alle parole dette in radio, quelle per cui è accusato di razzismo e quelle dette “senza limare gli aggettivi come si fa con la minuta di un pezzo”. Le parole sono: comunità rom “banda di ladri, mascalzoni, delinquenti, farabutti che ci intossicano dalla mattina alla sera”, Lerner “nasone”, un “nasone” che lui, Siegel, fosse stato “uno che frequenta la Sinagoga” sarebbe andato a prendere “per il collo ma veramente, non in senso figurato”. Motivo del “prendere per il collo”: “Ma tu mi puoi mettere sullo stesso piano l'Olocausto con questa banda di gente che va a rubare?”, frase detta a proposito dell'accostamento fatto da Lerner, in una trasmissione dell'Infedele del 2007, “tra il dramma del popolo ebraico con quello dei rom”. E se uno chiede a Siegel: “Scusi ma lei parla di Olocausto e poi chiama Lerner ‘nasone', epiteto con cui gli antisemiti offendevano gli appartenenti alla comunità ebraica?”, Siegel risponde che per lui “Nasone significa l'uomo di ‘Pinocchio', il conduttore diventato famoso con la trasmissione ‘Pinocchio', è da allora che lo chiamo così”.

    Se credergli o meno lo deciderà un giudice, a Milano. Siegel però non ammetterà “colpevolezze che non ha”, dice, “non l'ho fatto e avrei potuto, in quel modo, cioè ammettendo intenzioni che non avevo, cavarmi d'impaccio”. Dice che risponderà “delle porcate fatte all'Inferno, come tutti”. Tira fuori la lettera aperta che ha messo sul suo sito www.leosiegel.it, mandata in febbraio al Corriere della Sera “e mai pubblicata”, dice. Ma come mai pubblicata?, viene da chiedere. Guardi che il Corriere ha scritto del suo caso, con firma illustre, Gian Antonio Stella. Siegel non ha mai trovato però in pagina la sua lettera, la cui pubblicazione, secondo lui, avrebbe lenito la sua “ferita” più di qualsiasi intervista. La lettera aperta dice: “Ci sono ferite morali che lasciano il segno più di quelle fisiche. Ad esempio l'accusa di razzismo, reato spregevole e, per quanto mi riguarda, incompatibile con l'educazione ricevuta dai miei genitori, cristiani praticanti, che con sacrifici mi fecero studiare all'Istituto Gonzaga dei ‘Fratelli Cristiani'. Anche qui mi inculcarono i valori di questa fede. Di più, il mio stesso professionismo sportivo, con la relativa cultura interetnica, è agli antipodi dell'accusa. Di peccati, in vita mia, ne ho fatti, chiedendo poi perdono al Padreterno, ma mai quello che si potrebbe evincere dalla vicenda che mi vede coinvolto, e da voi riportata. Fiducioso che nelle sedi opportune tutto sarà chiarito, ringrazio per l'ospitalità”.

    Non ha rimorsi, Siegel, su quello che ha detto in radio – e deciderà un giudice se nel mondo Rispettabile certe cose non si possono dire (neppure) in radio. Un leghista che vuol restare anonimo, impiegato in un'amministrazione comunale del nord, dice che “alla radio padana quel filo diretto è fatto apposta per essere diretto. Forse Lerner ha notato quella trasmissione perché si è fatto il suo nome, ma gli ascoltatori dicono quello che pensano al filo diretto da anni, sullo stesso tema o su argomenti simili. Non sono gli amici di Lerner a parlare di libertà di parola?”. Lerner però dice che “un'aggressività così violentemente scagliata contro un gruppo etnico nel suo insieme, dando per scontato che avesse una tara genetica” l'ha fatto propendere per una soluzione che gli è odiosa: la denuncia, anche se, dice, “non voglio vendette né risarcimenti economici, e mi sarei accontentato di una richiesta di scuse”. Lerner vuole che “venga riconosciuto un principio: queste parole sono preliminari a fatti di violenza. Non siamo immunizzati contro l'intolleranza e l'odio. Già sappiamo, dagli anni Settanta, che parole irresponsabili hanno concimato la pratica armata. Voglio che sia sancito in tribunale che c'è un linguaggio proibito”. Siegel, dal canto suo, di fronte all'accusa di istigazione all'odio razziale si definisce “ghandiano”, dice che la Lega è “un movimento ghandiano” e che lui sa “che nell'Olocausto vennero mandati a morire anche dei rom, ma appunto l'Olocausto, fatto osceno e nefando, non può essere paragonato alla malfidenza nei confronti di questa gente, malfidenza che cresce in un clima di insicurezza”.

    Per sottolineare l'assenza di rimorso rispetto “a mie parole ingiustamente accusate di incitare al razzismo”, Siegel ricorre a una battuta: “Io devo rispondere a due segretari, a Bossi e alla mia coscienza. Quando sono in pace con loro sono in pace con me stesso”. Lo dice con il tono con cui racconta di essere stato “un ragazzo che studiava all'Istituto Gonzaga non per snobismo ma perché i miei, che nel 1948 votarono Dc, dopo gli anni da sfollati – torinesi nel Canavese –  volevano che andassi in una scuola che avesse i vetri intatti. Io non mi sono mai sentito borghese. Borghesia per me era conformismo, non prendere posizione. Io l'ho sempre presa, una posizione, giusta o sbagliata che potesse apparire”. Siegel, da ragazzo, nel 1956, prendeva posizione “scendendo in piazza contro l'Unione sovietica per la libertà dell'Ungheria”. Anni prima, ancora mezzo bambino, era però sceso in piazza per “Trieste italiana”. “Per me la libertà in quegli anni, come poi negli anni Settanta, si coniugava con la destra”, dice. Sfollati i Siegel lo erano, come tanti torinesi, per la guerra. I nonni Siegel, cognome ebraico in famiglia cattolica, erano in Germania. Siegel, è stato detto, è ebreo da parte di padre e non di madre, quindi non è ebreo. Siegel dice di essere cresciuto in una famiglia cattolica e dice che non sa che cosa sia successo – “i nonni potrebbero essere pure morti in un incidente stradale” – e comunque non vuole dire nulla perché ora c'è il processo e “sembrerebbe  che io tiri l'acqua al mio mulino”. Come dire: uno che ha i nonni di origine ebraica non può essere razzista.

    Siegel insiste molto sul fatto che per lui il “razzismo” è “Olocausto, apartheid sudafricano, neri fatti schiavi e frustati nelle piantagioni, indiani d'America massacrati”. Dice che è vero che il giorno incriminato, in radio, ha detto, parlando dei rom, “banda di ladri, mascalzoni, delinquenti, farabutti”. Ma che non si può “paragonare L'Olocausto a problemi di convivenza che molti nel paese non vogliono guardare in faccia. Io ci sto, ai gazebo, al quartiere Ortica di Milano, di fronte alla gente, ai pensionati, alle casalinghe, agli operai. Gente che prima votava a sinistra e ora mi dice ‘meno male che ci siete voi'. Gente che magari ha due figli disoccupati e però sa che gli imprenditori preferiscono prendere in nero gli immigrati perché li pagano meno, gente che ora viene a firmare petizioni con la fotocopia del documento perché è stata scippata due volte. Spesso da immigrati. Ma dirlo non è razzismo. Sono fatti. E se è vero che le parole possono eccitare gli animi, io non me la sento di fare la verginella e chiudere gli occhi. Possibile che se dico a un bergamasco mascalzone è un insulto e se lo dico a un rom è razzismo?”. Siegel si sente, oltreché ghandiano, “rivoluzionario”: “Noi vogliamo fare la rivoluzione con la forza delle idee, e la rivoluzione, si sa, non la fa chi ha la pancia piena. Chi sta bene non vuole cambiare nulla. Ripeto: dirlo non è razzismo, sono fatti. Così facendo, a forza di chiamare razzismo il mio dire ‘mascalzoni', si rischia di banalizzare. Ci sarà un effetto al lupo al lupo quando e se il rischio dovesse essere reale”.

    Un fatto che mette d'accordo Siegel e Lerner è che quando un ascoltatore facinoroso, nel giorno incriminato, il 27 settembre del 2007, ha detto, all'indirizzo dei rom, “razza da sterminare, ci vorrebbe un uomo con i baffetti”, Siegel l'ha fermato: “No, credo che oggi ci possano essere metodi un pochino più democratici e civili… sa noi siamo ghandiani e cerchiamo di fare altri percorsi che non quelli”, ha detto. Lerner, interpellato in proposito, riconosce che in quel punto della trasmissione Siegel ha cercato di “contenere”, ma ribadisce che è il tenore di tutto quello che Siegel ha detto a costituire “un manifesto d'odio razziale preliminare a atti di violenza”. Lerner aveva portato la trascrizione della trasmissione al ministro Maroni, durante un convegno sulle leggi razziali organizzato dalla comunità ebraica. Maroni, inizialmente, come ricorda Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, disse di volersi costituire parte civile contro Siegel. Poi non l'ha fatto. Lerner racconta di aver ricevuto tempo fa una telefonata privata dal ministro in cui il ministro adduceva motivazioni tecniche riconducibili a un no dell'Avvocatura dello stato. “Ma avrebbe potuto fare un gesto simbolico”, dice Gad.

    “Alla radio chiama gente di tutti i tipi”, dice Siegel riferendosi agli ascoltatori del suo filo diretto. “Solo che in Italia ci sono poche radio senza filtri, noi e Radio Radicale, e non è un caso che Marco Pannella sia venuto, dopo la prima Pontida, unico, a dialogare con la Lega, acclamato con una standing ovation perché nessuno allora voleva parlare con un movimento fuori dall'arco costituzionale”.

    Siegel non è neppure una versione padana di Rush Limbaugh, il conduttore radiofonico americano ultraconservatore che sparò nell'etere una canzone dal titolo “Magic negro” contro Obama. Limbaugh, ascoltato da decine di milioni di ascoltatori, è comunque in qualche modo establishment. Siegel no. L'ex missino Siegel si avvicinò alla Lega quando vide “quei tavolacci, quelle persone non impalcate, come si dice qui al nord, che dicevano cose vere, cose anche brutte ma che non sentivo in bocca a nessuno dei politici marmittoni. Per me, dopo anni di lontananza dalla politica, fu un'altra scelta di libertà”. Dopo gli anni di piombo Siegel si occupò di sport e basta. Unico ricordo positivo di vita pubblica: il sindaco Carlo Tognoli, socialista, che gli dà un pubblico riconoscimento per la sua attività di volontariato (“e poi sono stato direttore della Tazzinetta benefica”, dice, come a voler lavare con questo l'accusa di razzismo: “Ai poveri non si guarda in faccia. Ti pare che io do da mangiare a un povero e guardo il colore della pelle?”).

    I fatti sono l'ossessione di Siegel. Li elenca: campionati vinti, elezioni vinte. Sono fatti appesi, sotto forma di manifesti, alle pareti verdi della sede della Padania e di Radio Padania, dove il sabato Leo Siegel passa a salutare direttore, colleghi e collaboratori, nei dedali di un palazzetto lontano dal centro di Milano, immerso nel nitore dei villini a schiera, un nitore inadatto all'immagine che ha “l'impresentabile” base leghista nel mondo rispettabile, quello che con Eugenio Scalfari si chiede “chi sarà la gente con cui parla Bossi?”. Ma il giornale e la radio non sono “base”, anche se per lavoro ascoltano la base. I ragazzi del giornale, di fronte a Siegel, ricordano i momenti di gloria – la nazionale padana ha avuto un risultato importante in Finlandia. Peccato per la troppa luce da notte bianca nordica e i troppi moscerini e le troppe paludi di erba e ghiaccio appena sciolto. Accanto alla scrivania di Leo Siegel si aggira una signora d'età indefinibile e aspetto da zia inglese al tè delle cinque. E' una collaboratrice della radio esperta di musica classica, candidata come altri collaboratori alle amministrative con la Lega. Ha i santini elettorali in borsa, prende la campagna con filosofia ma non è fiduciosa per via dell'alto numero di candidati leghisti nella sua zona: chiedo il voto e le persone mi dicono che si candida anche il loro amico e il loro parente, dice rivolta a Siegel, sospirando e lasciando squillare due cellulari.

    Fatto sta che ora un capriccio del caso o della storia mette di fronte in tribunale, oltreché due visioni opposte di chi è razzista e di chi non lo è, di chi istiga e di chi non istiga, due uomini con nome e cognome simile per assonanza e apparente lontanissima provenienza: Leo e Gad, Siegel e Lerner.

    Il 27 settembre del 2007, giorno incriminato, è la mattina successiva a una puntata dell'“Infedele” di Gad Lerner sui rom. E' un periodo in cui si parla molto di rom: c'è un fatto orribile, dei bambini rom arsi vivi in una baracca vicino a Livorno, e ci sono delle signore che, dice un ascoltatore a Siegel, al funerale gridano, all'indirizzo dei genitori dei bambini, “maledetti”, come a voler dire: siete voi i veri colpevoli, voi che li avete lasciati soli per andare “a rubare”. Sono giorni di rapine e stupri nelle ville di campagna, di amministrazioni comunali – anche di centrosinistra – che a Firenze e a Bologna lanciano l'allarme e spaccano giunte per via dell'emergenza sicurezza (e dei provvedimenti che vorrebbero prendere o hanno preso per risolvere il problema degli insediamenti abusivi e degli eserciti di lavavetri).

    Siegel – come si legge dalla trascrizione agli atti del processo (la stessa leggibile sul sito di Lerner), apre il programma radiofonico con una “premessa”: “Premesso che questa trasmissione e questi spazi sono fatti apposta per dare sfogo alle vostre legittime istanze, ai vostri risentimenti… una cosa la voglio dire prima di attivare le linee. Io non so se ieri sera avete assistito a quella oscenità condotta da Gad Lerner che aveva per tema la beatificazione di una banda di ladri cioè i nomadi o i rom, chiamateli voi come volete chiamarli. E prego che nessuno venga a dire ‘ma ladri come? Ma lei come si permette?' Ladri sì perché chiunque non ha un lavoro e campa, delle due l'una: o ruba oppure compie i miracoli nottetempo, gli danno un panino lo moltiplica, diventan cinquanta, cento oppure ci spieghino loro come fa a campare uno che non lavora. Va bene che ci sono i don Colmegna in giro che fanno di tutto di più però se è vero che sono centocinquantamila o giù di lì da queste parti eh, beh, centocinquantamila che vivono con la sussistenza dei vari don Colmegna… che poi don Colmegna non è che sia un benestante, don Colmegna cucca i soldi delle istituzioni e dei benefattori cioè i soldi nostri che poi non sono i benefattori xy, nome e cognome, no, sono i vari enti che campano con i sussidi dello stato, delle regioni, delle province e dei comuni…”. Dopo la premessa, e prima di prendere le telefonate, Siegel dice: “Il problema è un altro, e cioè io vedo mettere in croce chi? L'assessore di Firenze che pretende di coniugare l'amministrazione con la le-ga-li-tà !…  la punta di diamante di ieri è stata quando eh… il Gad Lerner eh.… così, veramente col cuore in mano ehm… la coscienza da un'altra parte però lasciata fuori, ha detto: ‘Va bene, voi togliete gli accattoni dai semafori', togliete i vùlavà da semafori, va bene, fa: ‘Ma vi preoccupate?, ma vi siete preoccupati di quale può essere la strada del recupero di queste persone quando non avranno più la possibilità di lavare i vetri ai semafori?'… Cioè, siamo arrivati a questo, ma io fossi stato in studio, io saltavo addosso a Gad Lerner lo pigliavo per il collo, in senso figurato, e gli chiedevo: ‘Senti un po', nasone ma ti sei mai chiesto per quale motivo si deve preoccupare un'amministrazione del recupero dei vulavà di gente irregolare di gente che campa di espedienti e non si deve preoccupare allora in egual misura o ancor con maggior misura del dramma del pensionato che non campa fino a fine mese? Oppure di quello che viene licenziato e perde il posto di lavoro?'”.

    Da questa miccia è disceso il resto: un'altra accusa di nasone, un altro “banda di ladri ai rom”, la non accettazione dell'accostamento rom-ebrei. E vari ascoltatori: opinioni non infiocchettate, magari rozze, magari repellenti, magari da bar o peggio, magari inaccettabili, se si vuole. Sicuramente poco udite e non udibili nel mondo dei rispettabili. Siegel oggi dice: “Il problema non si risolve con la censura, meglio che la gente parli piuttosto che meni le mani”. Lerner la vede esattamente al contrario: quello che dice Siegel può portare la gente a menare le mani. In attesa che un giudice decida, Leo Siegel continua “a parlare con la gente”, dice. Gente di periferia, di provincia. Gente al mercato, gente che prende l'autobus. Gente che, piaccia o non piaccia, esiste, parla, vota, si sposa, si lamenta, generalizza, sbraita, ha paura (paura fondata e non fondata). Gente che al mondo Rispettabile forse non è mai comparsa davanti, se non come eco visiva di un servizio giornalistico da Pontida o da una fabbrica un tempo “rossa”. Gente che può apparire egoista, urlante, preda di istinti belluini scomposti. Gente in difficoltà. Gente sparita dall'elettorato di centrosinistra. Gente che fa pensare “chi sono questi?” a uno che vive nel mondo democratico e Rispettabile – non è un bell'istinto, ma chi fa parte del mondo pulito e senza paure e senza campi nomadi sotto casa vorrebbe lì per lì escludere dalla vista e dal campo uditivo chi parla come Siegel e i suoi ascoltatori, e magari trattare i concittadini che dicono ai rom “banda di ladri” con guanti di lattice mentali, speculari a quelli che Francesco Merlo, in un pezzo su Repubblica, vedeva, al contrario, avvolgere la pelle (e la mente) di chi non vuole farsi arrivare come un pugno in faccia l'immagine degli immigrati piangenti e respinti in Libia, toccati da guardie italiane “con mani schifate e dunque inguantate”.

    Il giudice dirà se ci sono gli estremi dell'istigazione all'odio razziale nel caso Siegel. Non dirà se il problema è Leo Siegel oppure tutte le persone, in blocco, che, per quanto sgradevoli possano essere le loro opinioni, dal mondo Rispettabile non si sentono rappresentate. Non dirà neppure, il giudice, che cosa il mondo Rispettabile dovrebbe fare quando incrocia gli Impresentabili – fuori dal tribunale – se vuole che gli Impresentabili smettano di essere, sentirsi o apparire tali.

    (Nelle foto, soopra il giornalista Gad Lerner. Sotto Leo Siegel, conduttore di Radio Padania e candidato alle provinciali di Milano con la Lega Nord)

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.