Inchiesta su Le Figaro
Siamo tutti uguali, disse Luigi XVI
Eì stato scovato un “testamento politico” del re Luigi XVI che, come spiega il quotidiano francese Le Figaro, potrebbe riabilitare il sovrano.
Luigi XVI non fu un gran re. Per lo meno nessuno (o quasi) lo ricorda così. La storia lo ha descritto come un uomo troppo goffo, troppo riservato che al posto delle faccende politiche amava la caccia e che forse avrebbe preferito trovarsi dovunque piuttosto che a Versailles. Ora c'è un “testamento politico” che, come spiega il quotidiano francese Le Figaro, potrebbe riabilitarlo. Il documento che faceva parte di una collezione americana è stato acquistato da un francese con la passione dei manoscritti antichi, dopo anni in cui se ne erano perse le tracce.
Forse il re cominciava ad avere qualche rimorso, forse voleva soltanto dire la sua a dispetto di un'Assemblea Costituente che allora si comportava come un “sovrano” e che si sarebbe persino permessa di farlo arrestare. Qualsiasi fosse stata la ragione, nella notte fra il 20 e il 21 giugno del 1791, prima di tentare la fuga a Varenne, Luigi XVI si mise all'opera ed elaborò un documento, indirizzato a tutti i francesi e soprattutto ai parigini (che il sovrano pensò bene di distinguere) e considerato dalla tradizione storica un vero e proprio “testamento politico”. Un testo che è ben diverso dalle memorie che il sovrano redasse nella prigione del Tempio prima di salire al patibolo e che rappresenta l'ultimo ambizioso tentativo di Luigi XVI di affermare le proprie convinzioni politiche e sociali.
Pare che il documento sia realmente autentico, anzi Thierry Bodin, consulente della Corte di appello di Parigi sembra non avere dubbi quando afferma che “la firma è certamente quella del re, e, soprattutto, c'è la controfirma dell'allora presidente dell'Assemblea Nazionale, tale Alexandre de Beauharnais”. Un nome che ai più non suona nuovo: è lo stesso de Beauharnais che qualche anno dopo avrebbe sposato in prime nozze Giuseppina, moglie di Napoleone e futura imperatrice di Francia.
Secondo Jean-Christian Petitfils, biografo di Luigi XVI, si tratta di un testo essenziale per comprendere fino in fondo l'evoluzione del pensiero politico del sovrano.
Un sovrano che, per la prima volta da quando è scoppiata la Rivoluzione, decide di mettere da parte cautele ed esitazioni e parlare senza remore, riaffermando le proprie prerogative. Con un occhio rivolto, questa volta, anche alle richieste dei rivoluzionari.
Luigi XVI teorizzava una monarchia costituzionale al cui vertice c'era un re forte e potente, dotato di quel diritto di veto “absolu” che l'Assemblea voleva negargli in ogni modo. Una Costituente che il sovrano accusava di attentare alla “dignità della Corona di Francia”, forse non considerando che ormai per i francesi e per i parigini in particolare, la Corona la dignità l'aveva già persa molto tempo prima.
Ma il testo è, per alcuni aspetti, moderno (per quell'epoca) come non ci si aspetterebbe. Se da una parte il sovrano critica l'eccessiva decentralizzazione e la soppressione del diritto di grazia, dall'altra si dimostra assai conciliante sul piano sociale. Ammette l'uguaglianza civile e insiste sulle riforme che aveva cercato di adottare, soprattutto nel 1987, in materia fiscale affinché il ceto privilegiato non beneficiasse più di esenzioni indebite. Purtroppo il documento non lo aiutò a salvarsi dalla rabbia del popolo che da lì a due anni lo avrebbe condannato al patibolo.
Ma Luigi XVI, con questo testo, appare per la prima volta un re consapevole del proprio ruolo. Un re che fino a qualche mese prima era rimasto nell'ombra per l'ingombrante peso politico che alcuni dei suoi ministri avevano assunto. Allora non riuscì a convincere i francesi che si stavano sbagliando, nonostante si fosse definito “pére et meilleur ami” dei propri sudditi. Forse, col senno di poi, potrebbe riuscirci oggi.
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