Ha vinto "Il nastro bianco" dell'austriaco Michael Haneke

Cannes al vento

Mariarosa Mancuso

DAS WEISSE BAND di Michael Haneke, con Josef Bierbichler (concorso)
Tipi che dormono ai festival ne abbiamo visti tanti. Certi russano e bisogna dargli una gomitata per farli smettere (fingendo assestamento nella poltrona o ricerca del taccuino nella borsa).

    Ecco come la criticona del Foglio ha raccontato tutte le pellicole al Festival di Cannes. Dal vincitore, "Il nastro bianco" di Haneke, al vecchietto in 3d della Pixar passando per Cantona, Tarantino e Brad Pitt. Non ce n'è per nessuno.

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    Un vecchietto e un paio di occhialini per la visione a tre dimensioni hanno aperto il festival di Cannes sotto il segno della meraviglia. Ci sarà pure la crisi, con contorno di lamenti preventivi: “Signora mia, sapesse quanti yacht sono rimasti sfitti, e gli americani di Vanity Fair hanno cancellato il party, come l'Einaudi alla Fiera del libro di Torino”. Ma sapere che in cambio di pochi euro chiunque può godersi “Up” fa venir voglia di innalzare con le proprie manine un monumento al capitalismo, a Hollywood, alla Disney che ha passato un momentaccio e ha saputo risollevarsi comprando la rivale Pixar, al Novecento che ci ha regalato il cinema, ai pionieri dell'animazione che coloravano a mano i fotogrammi, ai giovanotti che invece di scrivere inutili romanzi e dipingere inutili quadri usano il loro talento per divertirci. Bravo il direttore Thierry Frémaux, che ha acchiappato il film e alla proiezione stampa scattava fotografie agli spettatori, già pronti con gli occhiali sul naso un quarto d'ora prima che si spegnessero le luci.

    “Up” è stato guardato con sospetto dagli investitori e dagli analisti di borsa perché racconta di un vecchietto che cammina con il deambulatore. Non il massimo per attrarre pubblico e licenze di merchandising. Ancora non sapevano quanto nel film vengono strapazzati i bambini, sotto forma di boy scout con gli occhi strabici. Per un film targato Disney possiamo considerarla una rivoluzione. Trionfa il vecchietto che ogni mattina appena sceso dal letto deve rimettere a posto le giunture. Mentre il ragazzino esploratore viene buttato fuori di casa, maltrattato, trattato da cretino petulante, messo in situazioni pericolose, raramente ascoltato giacché l'apparecchio acustico si può spegnere, impedito nel suo desiderio di fare amicizia con un coloratissimo pennuto. Il regista Pete Docter è pure recidivo: il suo primo film, “Monsters & Co”, era costruito sull'idea che un urlo di bambino bastasse per far muovere una turbina. La classe si vede dall'inizio, con un finto cinegiornale in bianco e nero. Subito dopo, il ritratto di un matrimonio: cinque minuti per raccontare una vita, ma davvero non manca nulla.

    Non facciamo in tempo a commuoverci, e arriva l'avventura: l'anziano venditore di palloncini, assediato da chi lo vorrebbe in una casa di riposo attacca migliaia di palloncini colorati alla casetta, usa le tende della doccia come vele, si dirige verso il Sudamerica. Non si contano gli omaggi ai classici del cinema. Niente riferimenti all'attualità, che fanno molto ridere adesso ma tra dieci anni denunceranno impietosamente l'età di un film senza tempo. Il successo di “Up” segna un nuovo inizio per il cinema a 3-D, già usato in funzione anticrisi quando nacque la tv. Stavolta dovrebbe essere la volta buona. Gli occhialini non procurano più lancinanti mal di testa (come le lenti di plastica rossa e verde che servivano per guardare “Il mostro della laguna nera”). I film non sono più solo horror con mascelle lanciate verso lo spettatore. Il vecchietto ha un bel futuro davanti a sé.

    DAS WEISSE BAND di Michael Haneke, con Josef Bierbichler (concorso)
    Tipi che dormono ai festival ne abbiamo visti tanti. Certi russano e bisogna dargli una gomitata per farli smettere (fingendo assestamento nella poltrona o ricerca del taccuino nella borsa). Certi pisolano così profondamente che gli squilla il cellulare, e in cinque sbottano sdegnati senza riuscire a svegliarlo. Mai avevamo fatto l'esperienza di qualcuno addormentato sugli scalini (la sala strapiena). Il poveretto cercava di sfuggire al film del regista austriaco, due ore e mezza che ne valgono il doppio. Bianco e nero rigoroso – il “rigoroso” dei critici equivale al “retrogusto” dei sommelier – per illustrare la vita di un villaggio tedesco alla vigilia della Prima guerra mondiale. Il nastro bianco del titolo allude all'innocenza, tra strani incidenti e cinghie nel letto per bloccare le mani peccaminose degli adolescenti. Sul messaggio siamo indecisi: suona “vizi privati e pubbliche virtù”, oppure “il signore delle mosche in bassa Baviera”, o magari “questi diventeranno tutti nazisti”. Tarantino aiutaci tu.

    FISH TANK di Andrea Arnold (concorso)
    Quest'anno in concorso solo nomi sicuri. Un bel no a Francis Ford Coppola, che per “Tetro” ha preferito l'alternativa Quinzaine. Sì al secondo film della regista Andrea Arnold, premio della giuria nel 2006 per l'ossessivo “Red Road”: telecamere di sorveglianza e sterminatori di famiglie rilasciati prima del tempo. Lo spostamento da Glasgow all'Essex non cambia lo sfondo popolare, fatto di appartamenti nei casermoni popolari, zingari, una quindicenne con la passione per la danza, una madre bionda e alticcia che si porta a casa un nuovo fidanzato. Rispetto all'ottimo precedente, più lungo e compiaciuto.

    SPRING FEVER di Lou Ye (concorso)
    Le ninfee galleggianti, sotto la pioggia, fanno scattare il campanello d'allarme. Arte con la maiuscola, mica pupazzetti in 3-D. Poi vediamo due maschi che con aria complice pisciano sotto il diluvio, e senza preamboli si rotolano tra le lenzuola. Quando tornano la ninfee, non ci sono più dubbi. E' arte cinese. Con molti tempi morti. Come se il film fosse proiettato a velocità normale quando scopano e al rallentatore per tutto il resto: pedinamenti, litigi, sigarette accese, ordinazione dei raviolini, vene tagliate.

    AIR DOLL di Hirokazu Kore-Eda (Un certain regard)
    Per la serie “nuove frontiere del sesso” (cinematografico), un quarantenne rende onore alla bambola gonfiabile. Gemiti e quel bel rumore che fa la plastica quando la si strapazza un po'. Sorpresa: un bel giorno la bambola si anima, esce per le strade, trova lavoro in una videoteca. Il dettaglio servirà quando l'ex signorina gonfiabile farà domande serissime sulla vita, subirà un piccolo incidente, sarà rianimata dal commesso premuroso con una respirazione bocca-valvola (all'altezza dell'ombelico, sopra leggiadra biancheria di pizzo). Originale e divertente, finché il costruttore di bambole prende a lavorar di metafora.

    NO ONE KNOWS ABOUT PERSIAN CATS di Bahman Ghobadi (Un certain regard)
    Al mercato nero di Teheran, visti e passaporti hanno un listino prezzi. Cinque dollari bastano per chi vuole andare in Afghanistan con un timbro falso. Ne servono ventimila per un passaporto USA. Attenti alla foto, se si cerca un documento iraniano: le cravatte sono vietate. Fuorilegge anche la musica (oltre ai gatti del titolo, e ai cani: devono stare chiusi in casa). Rock e Heavy Metal, peggio che mai: i giovani eroi del film suonano e cantano di nascosto negli scantinati o nelle fattorie (e le mucche non dan più latte). Il regista di “Il tempo dei cavalli ubriachi” – curdo e molto censurato – ha girato il film clandestinamente, in 17 giorni, facendosi arrestare due volte. Per cavarsela, corrompeva i poliziotti o fingeva di girare un film sulla droga.

    BRIGHT STAR di Jane Campion (concorso)
    Lui scrive poesie che lo lasciano non piacciono alla critica. Lei si cuce i vestiti da sola, con triple collarette molto vistose. Sono John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawn, romanticissimi come due devono essere nel 1818. La tubercolosi in agguato per chi esce senza mantello. L'amico un po' più in carne intanto mette incinta la servetta. Massima cura nei dettagli senza giocare ai quadri viventi (come nella Duchessa). “La poesia non ha nulla di poetico”, spiega Keats alla giovane allieva, e Jane Campion ha imparato la lezione.

    TETRO di Francis Ford Coppola, con Vincent Gallo (Quinzaine des Réalisateurs)
    Luoghi comuni da saggio finale alla scuola di cinema. Il candidato, figlio di musicista, porta un temino su una famiglia di direttori d'orchestra. Il diplomando, figlio di italiani in America, mette in scena una famiglia di immigrati italiani in Argentina e li chiama Tetrocini. Storie anche meno raffazzonate crollerebbero sotto il peso del ridicolo cognome, che serve al rampollo genio e sregolatezza – in manicomio stringeva al petto un manoscritto, la psichiatra non capì e si innamorò – a ribattezzarsi “Tetro”. Bianco e nero che omaggia il neorealismo, colori saturi di gusto dubbio, si salvano due scene dal “Coppelia”.

    RIEN DE PERSONNEL di Mathias Gokalp, con Jean Pierre Darroussin (Settimana della critica)
    Saranno pure italiani con un cattivo carattere, ma il cinema lo sanno fare. Anche quando parlano di licenziamenti e lotta di classe. Dopo “Louise–Michel”, questa opera prima del molto dotato trentacinquenne mette in scena sindacalisti e padroni. Senza lagne o messaggi. Con certosina attenzione al linguaggio e alla struttura, che segnano la differenza tra uno striscione e un film. L'azienda dà una festa, la storia ricomincia tre volte, ogni volta scopriamo cose diverse.

    THIRST di Park Chan-wook, con Song Kang-ho (concorso)
    Ottimi film sui vampiri non avevano risolto qualche dettaglio. Quel che accade tra le lenzuola della coppia vampira dopo il fatale primo scambio di fluidi. Come si nutre chi non è vegetariano e non può ha il sangue sintetico della serie “True Blood” (paziente in coma, tubicino della flebo nella bocca del vampiro). Zola fa causa per il plagio di “Thérèse Raquin”.

    VENGEANCE di Johnnie To
    ll rockettaro francese che suonò con i Rolling Stones non scherza con i lifting: a furia di tirarli su, gli occhi sono messi di traverso. Una storia di vendetta e memoria vacillante, girata con molto divertimento. Basta per scontentare i seriosi fan del regista di Hong Kong che cucina il thriller con salsa Shakespeare: invece degli alberi fa muovere i cubi di spazzatura pressata.

    AGORA di Alejandro Amenabar
    Polpettone storico, dei più tremendi. Con messaggio: almeno Galileo Galilei è stato processato, la povera Ipazia di Alessandria fu massacrata. Dai cristiani che bruciarono la biblioteca, impedendole di sfoggiare i suoi plissé e di osservare le stelle, e diedero la libertà ai giovani schiavi un tempo devoti. Roba da vietare ai festival. Dove sono scomparsi i professorini che si indignarono per “Troy”?

    HUMPDAY di Lynn Shelton
    Parlano marito e moglie a letto. Parla il marito con l'amico scapestrato dei vecchi tempi, e per dimostrare che non ha messo la testa a posto propone di girare un porno per un concorso di dilettanti. Sesso tra due maschi etero: un'idea tanto nuova che basterà a garantire la vittoria. Molte chiacchiere dopo, nessuno dei due si è ancora tolto le mutande.

    UN PROPHÈTE di Jacques Audiard

    Film carcerario, classico e splendido, su un giovanotto arabo arruolato dai còrsi. Figlio d'arte, Audiard aveva diretto “Tutti i battiti del mio cuore”, intrecciando omicidi e pianoforte come non accadeva da “Les mains d'Orlac”. L'unico difetto sta nel titolo, che rimanda a 2 minuti da tagliare. Non segue dibattito. Sarebbe come vedere “Il Padrino” e correre a tirar fuori il lenzuolo dell'antimafia.

    LOOKING FOR ERIC di Ken Loach

    E' stato Cantona a volere Ken Loach, non il contrario. Gli ha portato un abbozzo di trama, diventata dopo molti cambiamenti la storia di un tifoso sfigato che cerca conforto parlando con il suo calciatore prediletto. Non è passata una mezz'ora, che il coach improvvisato – seduto sul letto del postino, con o senza spinello – pronuncia il fatidico “C'est la vie”. Seguono molti altri saggi consigli (“fatti la barba tutti i giorni”, “la miglior vendetta è il perdono”, “se fallisce il piano A passa al piano B”).

    KINATAY di Brillante Mendoza (concorso)
    Una purga, scrive Nice-Matin (noi non ci permetteremo mai). E una condanna: il filippino era già in gara l'anno scorso con “Serbis”: cinemino con sesso a pagamento, e culo foruncoloso a tutto schermo. Per i cinefili duri e puri, “Massacro” merita un premio. In lunghe scene buie si vedono a malapena le facce degli attori. Un po' più di luce - bisogna vedere il sangue - quando squartano una prostituta. Ogni sms viene composto in tempo reale da un dito impacciatissimo.

    THE ANTICHRIST di Lars von Trier

    Sconsigliato a tutti. A chi non vuol saperne di sessi martoriati (lui, fuori scena) e tagliuzzati (lei, in scena). A chi sghignazza vedendo una volpe che sibila “il caos regna”. A chi ha un po' di rispetto per gli strizzacervelli, che qui disegnano la piramide delle paure come i dietologi disegnano quella dei cibi (in cima, sta Satana in un caso, i grassi saturi nell'altro). A chi ha amato anche un solo film di von Trier. Di peggio, c'è solo vederlo in italiano, coi dialoghi supervisionati da Paolo Crepet.

    VINCERE di Marco Bellocchio, con Giovanna Mezzogiorno (concorso)
    Da quando i settimanali popolari non dedicano più le copertine all'oro di Dongo e alle cameriere di donna Rachele, i registi impegnati suppliscono volentieri. L'anno scorso fu Giordana con “Sanguepazzo”, sulla coppia Ferida-Valenti. Ora tocca al figlio avuto da Ida Dalser, che aiutò il Benito ancora socialista vendendo il salone di bellezza (e mal gliene incolse). Cinegiornali, illuminazione drammatica, manicomio maschile e femminile. Il regista si è innamorato della vicenda e del personaggio, senza darsi la pena di spiegare allo spettatore il perché.

    LOS ABRAZOS ROTOS di Pedro Almodòvar, con Penélope Cruz (concorso)

    Lars von Trier è depresso, Pedro Almodovar stanco e svogliato. Le disavventure del regista cieco le avevamo già viste in “Hollywood Ending” di Woody Allen (qui l'attore, Lluís Homar, fa anche molta antipatia). Penélope Cruz cambia guardaroba e parrucche per rifare Audrey, Marilyn e Brigitte (ha un marito ricco che produce il film e va a letto con il regista, chiaro che finisce male). Il cornuto fa filmare la fedifraga dal figlio (poiché le immagini sono mute, arruola una lettrice di labbra, e lì si ride). Né gay né travestiti, peccato.

    INDEPENDENCIA di Raya Martin (Un certain regard)
    Robinson Crusoe veglia su “Lost” e anche su questa piccola sorpresa filippina. Siamo nel 1944, gli americani sono appena sbarcati, una madre e un figlio scappano nella foresta. Lui porta a casa una ragazza sperduta. La madre muore. Nasce un figlio. Il bambino cresce. Quando sognano appare la nuvoletta. Inquadrature, cespugli, sfondi pitturati, sarong e recitazione da film Usa anni Quaranta.

    POLYTECHNIQUE di Denis Villeneuve (Quinzaine des réalisateurs)

    Una maledizione colpisce il film sulle stragi scolastiche. Dall'artistico “Elephant” di Gus Van Sant al più andante “Davanti agli occhi” di Vadim Perelman, nessuno riesce a evitare la noia. Questo, in bianco e nero, viene dal Canada francofono. La sparatoria ebbe luogo il 6 dicembre del 1989 (quando ancora non esisteva You Tube, e Michael Moore non aveva girato “Bowling for Columbine”). Lo studente sparò solo sulle ragazze, colpevoli di volere la parità.

    LA MERDITUDE DES CHOSES di Felix van Groeningen, con Bert Haelvoet (Quinzaine des réalisateurs)
    “Ogni somiglianza con fatti e persone reali è dovuta alla bravura degli sceneggiatori”. Lo annuncia il regista, decidendo anche – senza discussioni – che il film è meglio del bestseller autobiografico di Dimitri Verhulst. Assieme al titolo, basta per renderlo simpatico. E per apprezzare questo bis belga di “Brutti sporchi e cattivi” dove un tredicenne fa i compiti al bar, tra il padre e gli zii sempre ubriachi, che vivono alle spalle della madre pensionata.

    INGLOURIOUS BASTERDS di Quentin Tarantino, con Brad Pitt (concorso)
    Torna la commedia con uso di nazisti. Più che a un filmaccio di guerra, l'ultimo Tarantino somiglia a “Essere o non essere” (nella classica versione di Lubitsch o nel remake di Mel Brooks) o al musical “Primavera per Hitler” messo in scena nei “Producers” (l'originale di Mel Brooks con Gene Wilder o quello di Susan Stroman, con Will Ferrell che batte i tacchi e dice “Heil Hitler”). Prologo nella Francia occupata, dove il perfido Christoph Waltz – bravissimo a riassumere centinaia di nazi da cinema – spara agli ultimi ebrei ancora vivi, che di cognome fanno Dreyfus. Si salva una ragazza, Shoshana. La ritroviamo a Parigi, nel cinema ereditato dagli zii, mentre stacca le lettere dall'insegna: si passa da un film a sfondo montanaro diretto da Leni Riefenstahl a un titolo di G. W. Pabst. Come questa storia vada a intrecciarsi con le gesta degli “Inglourious Basterds” – guerrieri americani capeggiati da Brad Pitt che collezionano scalpi di nazisti - è un piacere che non vi vogliamo togliere (e che nessuno dovrebbe togliere a nessuno). Grande amore per il cinema, consueto feticismo per i piedi: Diane Kruger ha una scena da Cenerentola, e quando le mettono il gesso a una gamba glielo fanno da sera, con il tacco.

    TALES FROM THE GOLDEN AGE di Cristian Mungiu e altri (Un certain regard)
    L'ispettore generale arriva per controllare se tutto è a posto, sta per arrivare al villaggio un pezzo grosso del partito: vuole i piccioni ammaestrati, i frutti posticci attaccati agli alberi, i piccoli pionieri con le orecchie a sventola nascosti in seconda fila (anche il finale, su una giostra, sarebbe piaciuto a Gogol). Era una delle leggende raccontate sotto la dittatura di Ceausescu, genialmente riprese dal Cristian Mungiu che con “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” vinse nel 2007 la Palma d'oro. Con altri colleghi, firma un film a episodi tragicomico dove tutti rubano sul posto di lavoro, i fotografi affinano l'arte del ritocco, i maiali si uccidono con il gas perché nessuno ha cuore di sgozzarli, le ragazze a scuola si corteggiano con un po' di mortadella.

    LES HERBES FOLLES di Alain Resnais, con Sabine Azéma (concorso)
    Il venerato maestro adatta un romanzo, “L'incident” di Christian Gailly. Ne approfitta per diventare ancora più verboso. Cadono in ginocchio gli amanti del cinema francese fatto di piccoli spostamenti del cuore e grandi isterie (il titolo allude alle erbacce che spuntano tra le fessure dell'asfalto). Restano perplessi gli amanti del cinema più svelto e meno ricamato. Sabine Azéma va a comprarsi un paio di scarpe e viene scippata. André Dussolier ritrova il portafoglio con i documenti e comincia a fantasticare. Tra stalking e amour fou, poteva essere un pochino più corto. Senza sovraimpressioni in stile scatola di biscotti. E bisognava dire alla parrucchiera di smorzare il rosso dei capelli di lei e di non tingere di biondo santoro i capelli di lui.

    LE PÈRE DE MES ENFANTS di Mia Hansen-Love, con Luis-Do de Lencquensaing (Un Certain Regard)
    Humbert Balsam avrebbe dovuto produrre il primo film della regista francese: “Tout est pardonné”. Morì suicida nel 2005, mentre la pellicola era ancora in pre-produzione. Era pieno di debiti, forse depresso (e sicuramente un po' stanco per i capricci degli artisti che aveva scoperto e cresciuto). Attrice per Assayas, critico per i “Cahiers du cinéma”, esordiente molto lodata in un cinema che ha barriere d'entrata molto più alte delle nostre, Mia Hansen-Love gli rende omaggio con il suo secondo film. All'inizio, una storia familiare come tante, con un padre che si stacca dal cellulare solo per la recita delle figlie (molto naturale e ben girata). Dopo la metà, un film che racconta il lutto e qualche segreto di famiglia. Sorprendente Chiara Caselli, che recita in francese. Non in un piccolo ruolo: è la moglie del produttore, e non si fa rubare la scena neppure dalle bambine.

    MIN YE di Souleymane Cissé, con Assane Kouyaté (fuori concorso)

    Finalmente un film africano con i ricchi. O almeno i benestanti: guidano la Nissan quattro per quattro, vivono in ville arredate come la casa di Barbie, urlano al cellulare, quando le mogli litigano con il marito dormono sul tappeto persiano. Le donne sono tondissime, elegantissime, vestite e inturbantate in coro fucsia, fanno le avvocatesse (ma devono vedersela con la poligamia). Perché mai il regista del Mali decida di rovinare tutto mettendo in scena un regista che dà istruzioni alla sua attrice, e rimprovera il cameraman che ha filmato senza sonoro, non l'abbiamo capito.

    A L'ORIGINE di Xavier Giannoli (concorso)
    Quando viene smascherato un medico senza laurea, gli ex pazienti si affrettano a testimoniare: “Era bravissimo e gentile, meglio del Dr. House”. Vale anche per i padroni, come dimostra questo film ricavato da una storia vera (nota per i registi italiani: non è impossibile girare pellicole originali sulla disoccupazione, forse anche sui precari, con un minimo di impegno). L'ingegnere arrivato per riaprire il cantiere dell'autostrada – chiuso da due anni per iniziativa dei verdi, dava noia a uno scarabeo protetto dalle leggi europee, anche questa vicenda è vera – assume cinquanta persone, ha tutta la gratitudine delle autorità, incuriosisce la sindachessa e la cameriera d'albergo. Peccato sia un truffatore, che comincia incassando qualche tangente (“Lavora al 15 per cento, giusto?”) senza neppure un biglietto da visita. Poi la carta intestata se la fa stampare dai truffati. Il vero scroccone costruì un pezzo di autostrada, rimase lì anche quando le cose si misero male, fu processato, incarcerato e ora nessuno sa dove si nasconde.

    PRECIOUS di Lee Daniels, con Gabourey Sidibe (Un certain regard)
    Si doveva chiamare “Push”, come il romanzo di Sapphire (Rizzoli lo pubblicò una decina di anni fa). Era lo stesso titolo di un film di fantascienza, che l'ha avuta vinta sul realismo. Sporco, sporchissimo, quasi insopportabile. Nella Harlem degli anni Ottanta, Precious aspetta il secondo figlio. A mettere incinta la sedicenne è stato suo padre. La madre fuma tutto il giorno, mangia solo roba fritta, guarda la tv, tratta la figlia come una schiava accusandola di averle rubato l'uomo, la butta giù dalle scale. Precious, una montagna di carne nera, si immagina bionda e circondata dagli ammiratori, come Queen Latifah ma più andante. Se la cava frequentando una scuola speciale, e un'insegnante che “parla come i programmi tv che non guardo mai”. Mariah Carey (irriconoscibile) fa l'assistente sociale. Lenny Kravitz l'infermiere. Un po' Mtv e un po' denuncia, un po' favola e un po' rivincita, con premio al Sundance.

    LE ROI DE L'EVASION di Alain Guiraudie (Quinzaine des réalisateurs)

    Bisogna che gli cambino il titolo. Sennò uno entra per vedere un tipo alla Mesrine che evade da tutte le carceri del mondo. E rimane intrappolato in un grottesco angolo della provincia francese con gay molto ben integrati nella comunità. Nessuno nasconde nulla, nei boschi intorno al paese si danno un sacco da fare (inclusi gli sposati): il protagonista ha 40 anni portati male e vende trattori, il più richiesto ne ha almeno 70 e sfodera qualche atout senza aiuti chimici. Un segaligno poliziotto si materializza ovunque, anche quando il pingue rappresentante incontra una sedicenne e cambia gusti. Fuga d'amore lei vestita e lui in mutande.

    DOGTOOTH di Yorgos Lanthimos, con Christos Stergioglou (Un certain regard)
    Villa con prato all'inglese, padre e madre con figli educatissimi, tono di voce calmo fino al torpore, dettagli che suggeriscono un mondo a parte. Ogni sera ci sono parole nuove da imparare, ma il significato non è quel che conosciamo: gli zombie, per esempio, sono piccoli fiori gialli. Di pomeriggio le due ragazze provano gli anestetici, mentre il maschio fa la sua educazione sessuale con una prostituta procurata da papà (“prendi questo”, “infilalo lì”, come se riordinassero il salotto). Il regista greco stuzzica la curiosità fino all'ultima scena.

    THE TIME THAT REMAINS di Elia Suleiman, con Elia Suleiman (concorso)
    Elia Suleiman ha capito come si vincono i festival. Nel 2002, “Intervento divino” fu il primo film palestinese in concorso a Cannes. Era girato come una comica del muto, con il regista sempre in scena, paragonabile a un Jacques Tati mediorientale. Prima inquadratura: un Babbo Natale bastonato a Betlemme. Vinse il Gran Premio della Giuria. Ora torna con un film-fotocopia, avendo cura però di inquadrare il muro antikamikaze costruito da Israele e di saltarlo con l'asta (applauso in sala). Racconta i bambini arabi che vincevano corsi di canto ebraico, il padre che trafficava armi, “Spartaco” visto a scuola, l'amico che faceva sogni erotici sulle soldatesse israeliane. Più lento e compiaciuto del precedente, e molto meno ironico, si aggira in zona Palma d'oro.

    THE IMAGINARIUM OF DR. PARNASSUS di Terry Gilliam, con Christopher Plummer (fuori concorso)
    Fa una certa impressione vedere Heath Ledger pendere con una corda al collo da un ponte sul Tamigi. Fa ancora più impressione quando lo tirano giù, gli fanno il massaggio cardiaco, lo rianimano. Sola conseguenza: il collo indolenzito (ma passa subito). L'ultimo sventurato film di Terry Gilliam racconta un patto con il diavolo. Si chiama Mr. Nick e spaventa la gente, mentre il Dr. Parnassus la diverte, aggiudicandosi la gara e guadagnandosi l'immortalità (di cui è già pentito: Satana, come il banco, vince sempre). Obbligatorio lo spettacolo da baraccone e lo specchio magico, riciclati dai “Fratelli Grimm” e dal “Barone di Munchausen”. Prossimo (e temiamo altrettanto fallimentare) progetto: riprovare con “Don Chisciotte”, che al cinema non porta benissimo. Neanche Orson Welles finì il suo.

    PANIQUE AU VILLAGE di Stéphane Aubier e Vincent Patar (fuori concorso)
    Si possono animare i disegni (come in “Cenerentola”) o i pupazzetti di plastilina (come in “Galline in fuga”). Vladislav Starevich negli anni Dieci animava gli insetti morti (celebre è una sua battaglia tra due scarafaggi), Lotte Reiniger negli anni Venti animava le silhouettes di carta per girare “Il principe Ahmed”. I belgi Aubier & Patar animano i pupazzetti di plastica. Quei giocattoli che stanno in fondo alle ceste, troppo modesti per trovare un posticino in “Toy Story”: l'indiano, il cow boy, gli animali della fattoria, il postino, la lattaia (tutti con la loro pedanina verde). Da una serie di culto, un film assurdo e divertentissimo. Per dire: in una scena, gli scienziati che vivono dentro un enorme pinguino cingolato tirano un'enorme palla di neve e uccidono la mamma di Bambi. Il cavallo legge il giornale sdraiato sul divano e riceve per il compleanno una balla di fieno ricoperta di Nutella. Babbo Natale ha la maschera da sub.

    LA TERRE DE LA FOLIE di Luc Moullet (Quinzaine des réalisateurs)
    Il documentarista, che di quelle regioni è originario, conficca gli spilli su cinque paesini delle Alpi Marittime. Servono per tener fermo l'elastico rosa che disegna “il pentagono della follia”: suicidi, omicidi, vendette con ogni tipo di arma da fuoco e da taglio, rapimenti, sparizioni e violenze carnali sono molto sopra la media francese (a qualcosa contribuiscono i pazienti dei vicini manicomi, vigilati ma non troppo). I villeggianti forestieri si ritrovano con gli oggetti spostati in casa (il che potrebbe essere paranoia) e le auto con i freni rotti (il che paranoia sicuramente non è). Luc Moullet conduce gli interrogatori e propone teorie: i baristi o i postini sono vittime predestinate, perché incontrano un sacco di gente. Il contrario del “going postal” americano che vuol dire dar di matto, dopo che molti impiegati allo smistamento aprirono il fuoco sui clienti. Spietato nel descrivere la vita contadina (recentemente celebrata su Repubblica con un duetto tra Ermanno Olmi e Carlo Petrini) a pari merito con “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti.

    AMREEKA di Cherien Dabis, con Nisreen Faour (Quinzaine des réalisateurs)
    La vita in Cisgiordania ha troppi posti di blocco. Tanto vale partire per gli Stati Uniti (il titolo è la parola araba per America), dove vive una sorella con il marito medico. Muna parte con il figlio Fadi, nascondendo 2.500 dollari in una scatola di biscotti, subito sequestrata alla dogana. Da contabile che era, si ritroverà a servire hamburger al White Castle, dove la sfotteranno come “mamma di Osama”. Anche il cognato medico fa fatica a pagare le rate della Mercedes, dopo l'11 settembre. L'intero repertorio della correttezza politica, snocciolato come se nessun palestinese avesse mai guardato con sospetto un suo vicino.