Le repliche di Boeri e Alesina

Processo ai liberisti

Francesco Cundari

Nel 2006 “Goodbye Europa. Cronache di un declino economico e politico”. Nel 2007 “Il liberismo è di sinistra”. Nel 2008 “La crisi. Può la politica salvare il mondo?”. I libri di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sono tra i più venduti, discussi e citati nel loro campo. Da qualche tempo, però, il tenore delle citazioni ha cambiato bruscamente di segno.

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    Nel 2006 “Goodbye Europa. Cronache di un declino economico e politico”. Nel 2007 “Il liberismo è di sinistra”. Nel 2008 “La crisi. Può la politica salvare il mondo?”. I libri di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sono tra i più venduti, discussi e citati nel loro campo. Da qualche tempo, però, il tenore delle citazioni ha cambiato bruscamente di segno. Di citazioni giavazziane sono pieni, per esempio, almeno due libri di recente o imminente pubblicazione. E basta vederne i titoli per capire subito che non si tratta del genere di saggio in cui uno studioso amerebbe ritrovare il proprio nome e la propria prosa: “Bluff – Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente”, di Marco Cobianchi (giornalista di Panorama) e “Processo agli economisti – A chi abbiamo affidato il nostro benessere. Ecco perché i guru del liberismo hanno fallito”, di Roberto Petrini (giornalista di Repubblica). Dei tanti segnali di cambiamento nell'economia, nella politica e forse persino nello “spirito del tempo” che riempiono le pagine dei giornali, l'improvviso attacco ai “guru del liberismo” e al loro capofila, Francesco Giavazzi, non è tra i meno sorprendenti. Eccettuati Karl Marx e John Maynard Keynes, pochissimi studiosi, e ancor meno giornalisti, editorialisti o semplici commentatori di fatti economici hanno mai goduto di una tale influenza sulla politica.

    Lungo sarebbe l'elenco delle vittime illustri dell'inflessibile editorialista del Corriere della Sera, professore della Bocconi di Milano e del Mit di Boston, ispiratore dell'apprezzatissimo sito Internet lavoce.info, prolifico saggista, infaticabile conferenziere e polemista implacabile. Solo per citare i duelli più recenti e famosi, Giavazzi ha trascinato alla gogna Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell'Economia nel governo Prodi, sorpreso a lamentarsi delle sue critiche in un'e-mail a colleghi economisti, editorialisti e banchieri, dallo stesso Giavazzi prontamente intercettata e pubblicata sul Corriere. Con non minore veemenza Giavazzi si è scagliato contro il ministro di centrodestra che è venuto prima (e dopo) Padoa-Schioppa, Giulio Tremonti. Ma quando, nel 2005, Tremonti è stato sostituito da Domenico Siniscalco, la vigilanza del professor Giavazzi non si è abbassata. “Un accademico senza spina dorsale, prestato alla Casa della Libertà per fare bella figura sui mercati: questo si è dimostrato essere il ministro Siniscalco”, ha scritto sul Corriere il 3 settembre 2005. Meno di tre settimane dopo lasciava anche Siniscalco, e il professor Giavazzi non mancava di rendergli l'onore delle armi. “Il ministro Siniscalco esce a testa alta: a lui va il rispetto di tutte le persone perbene”, scriveva il 22 settembre 2005. Quindi, dal 2005 al 2007, con pochissime interruzioni, se la prendeva con il governatore della Banca d'Italia (Antonio Fazio) e con il presidente del Consiglio (Romano Prodi). In entrambi i casi, va detto, in nutrita compagnia; resta il fatto che nessuno dei due è rimasto a lungo al suo posto.

    Nell'ultima campagna elettorale, l'autore del programma del Partito democratico, Enrico Morando, dichiarava apertamente di averne ripreso larghe parti dal sito lavoce.info, dove scrivono abitualmente, oltre allo stesso Giavazzi, tanti dei suoi colleghi e allievi in Bocconi, a cominciare da Tito Boeri. E già in piena crisi economica, mentre buona parte dei suoi correligionari liberisti di Oltreatlantico finivano sbeffeggiati nelle trasmissioni di economia come nei talk show serali, con le loro incaute previsioni esposte al pubblico ludibrio e alla rabbia di piccoli azionisti, risparmiatori e titolari di fondi pensione andati in fumo, Giavazzi veniva amichevolmente ospitato e trattato con insolito riguardo persino da Michele Santoro. E ancora più tardi, nemmeno un mese fa, Tito Boeri veniva ricevuto con tutti gli onori nel salotto di Serena Dandini, perché spiegasse alle masse del “ceto medio riflessivo” gli insondabili misteri della crisi finanziaria. Adesso, però, il clima sembra essere cambiato anche in Italia. E dopo anni in cui la cosiddetta “scuola di Milano”, l'élite del pensiero economico liberista formata alla Bocconi, le ha cantate (e suonate) a ministri e presidenti del Consiglio, partiti e sindacati, ecco che qualcuno comincia a fare le pulci anche a loro. Quasi una nemesi, per chi ha sempre invitato la “vecchia Europa” a seguire la più giovane e dinamica America, dove in effetti questo genere di “processi” è cominciato da un pezzo.

    Dal tempo della famosa parabola della trave e della pagliuzza, la storia è piena di moralizzatori e raddrizzatorti passati rapidamente dal banco dell'accusatore a quello dell'imputato. Anche nel giornalismo economico, cambiando quel che c'è da cambiare, vale dunque la regola di Pietro Nenni: troverai sempre un puro più puro che ti epura. Ma anche nell'occhio di chi oggi fa le pulci alle contraddizioni e alle omissioni dei moralizzatori di ieri, a essere onesti, non è molto difficile trovare fior di pagliuzze, se non vere e proprie travi. E così, nel libro di Petrini, si troverà naturalmente l'immancabile citazione di Alberto Alesina, già segnalata da Marco Fortis e ormai divenuta un classico del genere: “Quella in atto è una correzione come ce ne sono state altre. No, non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla come quella della new economy. Ultimamente si era esagerato un po' a prestare denaro grazie a tassi d'interesse troppo bassi, ora è in atto una forte correzione, tutto qui” (la Stampa, 20 agosto 2007). Un vero peccato, però, che Petrini (giornalista di Repubblica) ometta di citare l'inizio della frase. Un inizio che avrebbe dato peraltro ben maggiore efficacia alla citazione, non per nulla riportata per intero nel libro di Cobianchi (giornalista di Panorama). “Non ci sarà nessuna crisi del 1929 come dice Tremonti: quella in atto è una crisi come ce ne sono state altre…”. In compenso, chi volesse trovare un elenco delle affermazioni e delle scelte meno lungimiranti di Tremonti, le cui ragioni sono comunque ampiamente riconosciute in entrambi i libri, le cercherebbe inutilmente nel saggio di Cobianchi (Panorama), trovandone invece a non finire nel saggio di Petrini (Repubblica).

    Entrambi i pamphlet riportano invece le parole del professor Giavazzi: “La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l'economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda” (il Corriere della Sera, 4 agosto 2007). Neanche un mese dopo le foto delle code davanti alla banca inglese Northern Rock (salvata dal governo britannico, quindi nazionalizzata) diffondevano il panico in tutto il mondo. Solo Cobianchi, invece, riporta le previsioni di Boeri, firma di punta di Repubblica, nonché presidente della fondazione Rodolfo De Benedetti. Anche per Boeri, come per Alesina, nell'agosto 2007 non era in vista nessuna crisi del '29, con “l'economia mondiale che continua a crescere a tassi molto sostenuti e con le banche centrali che hanno finora assolto al loro ruolo”. Pertanto, esortava Boeri assieme a Luigi Guiso, cofirmatario dell'articolo, “non gettiamo oggi, come tante volte in passato, i semi della crisi futura con una reazione eccessiva alla crisi corrente”. Proprio quello che ripete da tempo Silvio Berlusconi – con somma indignazione di Repubblica – e che Boeri diceva con le parole di Roosevelt: “In queste crisi c'è da aver paura della paura”. Per poi spiegare che “il primo fattore” della crisi era “un insieme di cattiva informazione, inesperienza finanziaria e miopia dei consumatori/investitori che si sono lasciati attrarre dalla prospettiva di ottenere mutui a tassi mai visti prima”. Basti pensare che “solo due terzi degli americani conosce le leggi della capitalizzazione composta, dunque sa calcolare i costi dell'indebitamento” (la Repubblica, 22 agosto 2007).

    Il colpo più efficace ai “guru del liberismo” arriva però con la citazione del 19 agosto 2007, e cioè appena tre giorni prima. Il 19 agosto, sul Corriere della Sera, a firmare un pezzo a quattro mani sono infatti Francesco Giavazzi e Alberto Giovannini. Ma se nel Boeri-Guiso di tre giorni dopo il “primo fattore” della crisi sarebbe stato individuato nella “cattiva informazione, inesperienza finanziaria e miopia dei consumatori/investitori che si sono lasciati attrarre dalla prospettiva di ottenere mutui a tassi mai visti prima”, poveri fessi che non conoscevano nemmeno “le leggi della capitalizzazione composta”, nell'articolo a firma Giavazzi-Giovannini si afferma invece l'esatto contrario, sottolineando proprio quei “benefici dell'innovazione finanziaria” che “sono arrivati fino alle famiglie, soprattutto a quelle che nel passato non avevano accesso al credito, per esempio per acquistare una casa”.

    Il resto dell'articolo è un'autentica apologia del sistema finanziario e dei suoi sofisticati meccanismi di “distribuzione del rischio” (come i derivati, per fare un esempio). “In passato il rischio era concentrato soprattutto nelle banche. Oggi le banche, quando erogano un prestito… hanno la possibilità di venderlo immediatamente ad altri investitori. Il rischio in questo caso non rimane più concentrato nelle banche, ma si diffonde tra una miriade di investitori”. Di qui la domanda: “Queste trasformazioni hanno reso i mercati più o meno fragili?”. Risposta: “E' abbastanza intuitivo che un mercato con più partecipanti sia in grado di assorbire fluttuazioni nella domanda e nell'offerta in maniera molto più efficiente… E' miope pensare che la riduzione drammatica nei premi al rischio che ha caratterizzato gli ultimi anni sia stata una bolla speculativa”. Sarà stato miope dirlo prima, ma i fatti che sono venuti dopo, ormai, sono sotto gli occhi di tutti.
    Il gioco delle citazioni potrebbe proseguire a lungo, arrivando fino a tempi recentissimi. Volendo, anche fino a ieri, visto l'articolo in cui Giavazzi accusava il governo di sottovalutare la crisi (“L'ottimismo un po' eccessivo”, Corriere della Sera, 19 maggio 2009). Ma il gioco finirebbe per divenire stucchevole. E anche unilaterale, considerando i molti illustri commentatori che per ragioni di spazio resterebbero inevitabilmente tagliati fuori – ci limitiamo pertanto a un semplice rinvio al libro di Cobianchi per l'elogio del meccanismo dei derivati, grazie al quale “nessuna banca americana è ancora fallita e per il momento gli effetti sull'economia reale sembrano molto limitati” (Luigi Zingales, il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2007).

    L'aspetto più interessante di questi libri non è però nell'elenco degli errori commessi dagli economisti. A sbagliare analisi e previsioni sono stati studiosi, banchieri e giornali di tutto il mondo (compreso questo, naturalmente). E certo è giusto rendere onore ai pochi che in Italia hanno sfidato l'opinione dominante, denunciando rischi e difetti di quel sistema che tanti altri proclamavano il migliore possibile, l'arrivo di una crisi che quasi tutti negavano, la necessità di interventi universalmente considerati non solo non necessari, ma addirittura dannosi (se non criminali). Da Giulio Tremonti a Marco Vitale, da Marcello De Cecco a Massimo Mucchetti, fino all'ormai famosissimo economista turco-americano Nouriel Roubini (formatosi anche lui, bisogna dire, nella Bocconi del professor Giavazzi). Ma l'aspetto interessante resta un altro, purtroppo assai poco trattato.
    L'aspetto più interessante riguarda il modo in cui quella “opinione dominante” si è formata e progressivamente imposta nel dibattito pubblico, in tutto il mondo, ma forse in Italia più che altrove.

    In fondo, sono passati meno di quattro anni da quell'estate del 2005 in cui tutti i commentatori e tutti gli economisti gridavano contro la commistione tra politica ed economia, invitavano le banche italiane a seguire l'esempio americano, tuonavano contro i “furbetti del quartierino” e contro l'Unipol, mentre le pagine di tutti i giornali si riempivano delle intercettazioni telefoniche di Giovanni Consorte e Piero Fassino, Antonio Fazio, Massimo D'Alema, suscitando in Sergio Romano dolenti parole sul “paese delle cuginanze”, e in Eugenio Scalfari una vibrante denuncia della “cloaca” che emergeva da quelle conversazioni. Nel frattempo, proprio in quegli stessi fatidici mesi, la Fiat concludeva in un baleno, tra una cordiale telefonata alla Consob e l'altra, quel giochino finanziario chiamato “equity swap” che consentiva agli Agnelli di rimanere al comando (e per cui è aperto un processo); alcune delle banche straniere che il terribile Fazio voleva allontanare dall'Italia andavano letteralmente all'aria, e oggi semplicemente non esistono più; e quanto a commistioni tra politica ed economia, dopo aver visto il presidente degli Stati Uniti ordinare a Chrysler di accettare l'offerta della Fiat, per fare un solo esempio, l'argomento non sembra più di gran moda. A voler fare le pulci al mondo, insomma, ci sarebbe materia per almeno una ventina di libri, e non solo in Italia.

    L'aspetto interessante di tutta la questione resta infatti quello che Simon Johnson ha recentemente messo in luce negli Stati Uniti, in un saggio pubblicato sull'Atlantic, a partire da una banalissima considerazione: le diverse politiche che hanno modellato il sistema finanziario da cui ha avuto origine la crisi – debole regolazione, denaro a basso costo, l'alleanza economica non scritta tra Stati Uniti e Cina, gli incentivi all'acquisto di casa – avevano qualcosa in comune. “Sebbene alcune siano tradizionalmente associate ai democratici e altre ai repubblicani, tutte quante andavano a beneficio del mondo della finanza”. Non per nulla il saggio è intitolato “Il golpe silenzioso”.

    Naturalmente si può non condividere la tesi, che ha comunque il vantaggio di sottrarre la discussione a una disputa tra destra e sinistra (considerate entrambe largamente influenzate dal potere finanziario). Ma forse, nell'Italia di oggi, è di questo che si dovrebbe discutere. Cominciando magari con il domandarsi se non sia proprio una certa “ideologia” antipolitica, insieme liberista e giustizialista, che nello stato, nella politica e nei partiti vede solo il trionfo della corruzione e l'umiliazione del merito, la vera intossicazione di cui l'Italia dovrebbe liberarsi.

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