La definizione più bella della rassegna è di Hanif Kureishi: “Sembra di essere a un Grande fratello dove si vedono tanti film”

A Cannes, duole dirlo, c'è soltanto un film che si salva davvero

Mariarosa Mancuso

"Un prophète” di Jacques Audiard è l'unica pellicola che si possa vedere il sabato sera. Il premio correttezza politica (e lentezza cinematografica) è per il film di esordio. Di sicuro Madame la Présidente Isabelle Huppert ha fatto valere la sua idea di cinema. Dura, pura, punitiva per lo spettatore.

    Pare che Madame la Présidente abbia redarguito la giurata Asia Argento, arrivata in ritardo alla riunione: “Siamo qui per lavorare, non per divertirci”. Di sicuro – nella sfarzosa villa Domergue messa a disposizione dal comune di Cannes, bonificata perché non ci fossero microfoni neppure in giardino, i telefoni cellulari confiscati, la giuria sorvegliata a vista – Isabelle Huppert ha fatto valere la sua idea di cinema. Dura, pura, punitiva per lo spettatore, come quasi sempre sono i film dove la magrezza intellettuale dell'attrice francese fa bella mostra di sé dai tempi di “La merlettaia”.

    Ai suoi diktat è sfuggito solo “Un prophète” di Jacques Audiard, Gran Premio della Giuria. L'unico che si possa vedere di sabato sera, magari con qualcuno di cui vogliamo conservare l'amicizia. L'unico del palmarès 2009 che possieda la preziosa doppiezza degli instant classic: vogliamo sapere come va a finire (già basterebbe per tenerci due ore e mezza con il fiato sospeso) e nello stesso tempo ammiriamo la grana del racconto, la bravura degli attori, il talento del regista nel risuscitare il genere carcerario, che certamente madame Huppert considera indegno delle sue attenzioni. Estremo oltraggio: è un film made in France, in parte parlato in lingua còrsa, che doppiato potrebbe sembrare americano.

    “Ci spaventi pure a morte, Herr Haneke, ma per favore non ci faccia la morale”, scrisse Mark Kermode sul Guardian, dopo aver visto la versione americana di “Funny Games”, con Tim Roth e Naomi Watts, identica tortura dopo tortura all'originale tedesco girato una decina di anni prima. Era infastidito dal giochetto che il regista austriaco ripropone tale e quale in ogni suo film, visto che funziona sempre, come i trucchi dei grandi truffatori. “Ci annoi pure a morte, Herr Haneke, ma per favore non ci faccia la morale”, vien da dire dopo aver visto “Das Weisse Band” (il nastro bianco), cupa vicenda ambientata alla vigilia della prima guerra mondiale. Si comincia con una caduta da cavallo, per niente accidentale: qualcuno ha teso un filo da pesca in mezzo al viottolo. Mentre la voce fuori campo accompagna le immagini in bianco e nero, pensiamo a “Effi Briest”, a “La lettera scarlatta”, al contadino con il forcone e alla contadina con la crocchia del quadro “American Gothic”. Qualsiasi romanzo di qualsiasi scrittore dell'Ottocento inviso alle avanguardie – garantito - va più veloce e appassiona di più. I bambini sottoposti a severa disciplina – o forse già assassini, nei film di Haneke non si hanno mai certezze, alla fine di “Caché” andammo avanti a discutere per ore su chi aveva messo la videocamera spia e perché – diventeranno nazisti. Allo spettatore messo a dura prova da un regista sadico e narciso non pensa mai nessuno, hanno più attenzione i panda e gli scarabei coccolati dai verdi.

    “Ci aspettavamo il peggio, è molto peggio”: così suona una fulminea stroncatura cinematografica citata nelle memorie di Gilles Jacob, che nel 1976 cominciò a lavorare al Festival come precario, qualche anno dopo diventò direttore e ora è presidente (“Citizen Cannes”, edizioni Robert Laffont). Non potevamo certo sperare che Isabelle Huppert desse il premio per la migliore attrice a Imelda Staunton, spassosa mamma ebraica in “Taking Woodstock” di Ang Lee. Ma c'era la romantica Abbie Cornish, fidanzata del tubercolotico John Keats in “Bright Star” di Jane Campion. Oppure l'esordiente Katie Jarvis in “Fish Tank” di Andrea Arnold. Non c'era bisogno di spingere la provocazione all'estremo, premiando Charlotte Gainsbourg per l'invedibile “Antichrist” di Lars von Trier. Come tutte le attrici che ricevono riconoscimenti per aver compiuto con un forbicione lo strazio di pudenda che in “Sussurri e grida” di Bergman Liv Hullman operava con un pezzo di vetro e Isabelle Huppert in “La pianista” (diretto da Haneke e scritto dalla Nobel-pornografa Elfriede Jelinek) operava con una lametta, Charlotte ha ringraziato il marito Yvan Attali, i figli, la mamma Jane Birkin, il papà Serge Gainsbourg. Facendo venire il sospetto che stesse tirando la volata al biopic in lavorazione.

    A “Fish Tank” è andato mezzo Premio Speciale della giuria, Isabelle Huppert si deve essere distratta un attimo: il film non è del genere che si vede per svagarsi – ragazza povera respinta dalle coetanee, madre giovane con nuovo fidanzato fin troppo presentabile – ma siamo comunque in zona sporco realismo, preferibile al masochismo femmineo. Madame la Présidente ha messo lo zampino nell'altro mezzo premio, andato a “Thirst” del coreano Park Chan-Wook. L'unico film di vampiri che – a nostra memoria e in un periodo che li vede in auge, anche Almodovar discetta di succhiasangue integrati nella società, peccato che la tv sia arrivata prima con “True Blood” – non funziona. Il coreano pasticcia con il cattolicesimo, aggiunge “Teresa Raquin” di Zola, massacra il sesso del suo protagonista, disgusta lo spettatore. Il premio per la migliore sceneggiatura va a “Spring Fever”, che di sceneggiatura non ne ha. Però il cinese Lou Ye ha girato il suo film sui gay clandestinamente: basta per guadagnare punti. Lo stesso vale per il premio per la regia a “Kinatay” di Brillante Mendoza. Né Hanif Kureishi – che ha definito l'esperienza “un Grande Fratello dove si vedono tanti film” – né gli altri giurati si sono opposti. Inappuntabile solo il premio come migliore attore a Cristoph Waltz. Uno che lavora da trent'anni, perlopiù in serie tv, e non finiva di ringraziare Quentin Tarantino per avergli proposto un copione tanto bello.

    Divisa in due con il bilancino della correttezza politica e della lentezza cinematografica anche la Caméra d'or per il migliore film di esordio. Lo hanno preso “Ajami”, girato a quattro mani da un ebreo e da un palestinese, e “Samson e Delilah”, primo film aborigeno in selezione ufficiale. Il regista era sul palco a pavoneggiarsi. I due attori ragazzini – che non possedendo telefono vanno avvertiti di persona, o con un piccione viaggiatore – ancora non lo sanno.