La soap Opel inizia con Alfa

Stefano Cingolani

Ferito nell'orgoglio, furibondo per il trappolone che gli hanno teso, Sergio Marchionne ha paragonato il governo tedesco a una “soap opera brasiliana in un anno elettorale”. Giulio Tremonti aveva evocato ricordi nostrani: “Sembra di essere tornati ai tempi delle Partecipazioni statali”. Altro che telenovelas, altro che lotterie, allora. Se avesse lavorato in Italia nell'era dei boiardi di stato, Supersergio avrebbe visto com'erano le riffe all'italiana.

    Ferito nell'orgoglio, furibondo per il trappolone che gli hanno teso, Sergio Marchionne ha paragonato il governo tedesco a una “soap opera brasiliana in un anno elettorale”. Giulio Tremonti aveva evocato ricordi nostrani: “Sembra di essere tornati ai tempi delle Partecipazioni statali”. Altro che telenovelas, altro che lotterie, allora. Se avesse lavorato in Italia nell'era dei boiardi di stato, Supersergio avrebbe visto com'erano le riffe all'italiana, con le regole dettate dalle geometrie variabili del potere. Se ci fosse stato lui al vertice della Fiat quando venne venduta l'Alfa Romeo, avrebbe capito cosa vuol dire trasformare il mercato in una rumorosa, colorita e olezzante fiera di Senigallia. Nulla di illecito, sia chiaro; niente che abbia aguzzato gli appetiti di magistrati già pronti all'assalto o di penne vagabonde con lo scoop in canna (mai successo con la famiglia reale del capitalismo italiano: mani pulite in guanti di velluto). Ma fatto sta che, tra diabolici trilli di ottavini e gran fragore di tromboni, persero la testa persino gli americani.

    C'è poco da far le verginelle. Anche le guerre chiamate di mercato sono politica condotta con altri mezzi. Dietro gran parte delle partite che hanno coinvolto imprese “sensibili” come si dice con un puritano sinonimo di interesse nazionale (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, tv e giornali, grandi industrie strategiche o che rappresentano una quota significativa del prodotto lordo, insomma quasi tutto ciò che è grande e significativo), governi e partiti hanno giocato sempre da attaccanti o da difensori, quasi mai da arbitri. La Grosse Koalition non fa eccezione.

    Marchionne ha sottovalutato il fattore politico? Siccome non è un ingenuo, ha capito il ginepraio in cui si è messo. Con ogni probabilità, ha pensato di utilizzare le regole americane. Nel Nuovo Mondo tutto si negozia e le trattative sono dure e spinose fino all'ultimo istante. Poi si stringe un accordo ed è fatta. Nel Vecchio Continente, anche là dove prevale lo spirito protestante, l'apparenza e la realtà si confondono, i sentieri si fanno tortuosi, le linee barocche: tutto può ricominciare da capo e le norme possono cambiare in corso d'opera. Avrebbe dovuto chiedere consiglio a Carlo De Benedetti che prese un sonoro ceffone politico quando tentò di conquistare la Société Générale de Belgique o a Leopoldo Pirelli che ci rimise l'azienda di famiglia nel tentativo di prendere la tedesca Continental. Meglio di tutti sarebbe stato se Supersergio avesse consultato Cesare Romiti perché lui, invece, gli intrighi della politica li conosce a menadito.
    “L'Alfa Romeo? Non la prenderei nemmeno con 500 miliardi di dote”. Determinato e tranchant come al solito, l'ad della Fiat sbatté la porta in faccia a Franco Viezzoli e Fabiano Fabiani, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, i quali gli offrivano su un piatto d'argento l'auto che, quando passava per strada, costringeva Henry Ford a togliersi il cappello. O almeno, quel che ne restava: il marchio con la croce e il biscione. Quei cinquecento miliardi, in realtà, all'Iri erano pronti a darli davvero pur di liberarsi di un'azienda dalla quale riscuotevano metà degli introiti, accollandosi la totalità dei debiti: 1.600 miliardi di lire su un fatturato di 2.200, con una produzione che a stento raggiungeva le 180 mila vetture l'anno.

    A Vittorio Ghidella, il capo della Fiat auto, l'idea di lavorare insieme non dispiaceva. Tanto che aveva cominciato a stendere una bozza di programma con Giuseppe Tramontana, ad dell'Alfa. Ma si trattava pur sempre di collaborazioni industriali. Nessuno a Corso Marconi pensava allora di rilevare la casa di Arese, ricorda lo storico della Fiat, Valerio Castronovo. Evidentemente, sottovalutavano la testardaggine di Romano Prodi e la determinazione di Fabiano Fabiani, decisi a scrollarsi di dosso quel fardello che rischiava di mandare a picco i conti di una conglomerata diventata una sorta di Iri nell'Iri, visto che allungava i suoi tentacoli dall'aeronautica alla Difesa, dai treni ai satelliti o ai microprocessori. Prima avevano provato con Chrysler: appena risanata da Lee Iacocca, non intendeva certo caricarsi di pesi morti. Poi avevano avvicinato la stessa Fiat, incassando l'altezzoso no, grazie. A quel punto, Prodi & Fabiani (la vulgata li vuole uniti da insolito destino, ma in realtà si sono pizzicati per una vita come la strana coppia di Neil Simon), hanno tirato fuori una carta di riserva, un asso di denari: Ford, che si era fatta avanti quando ormai sembrava tutto perduto. Appena un anno prima, le divisioni al vertice del gruppo torinese avevano mandato a monte le nozze del secolo tra le due famiglie che hanno fatto la storia dell'automobile. E il gruppo americano, scottato, ma pur sempre interessato a entrare in Italia, cercava la rivincita.

    L'Avvocato reagì con la sua leggendaria nonchalance. “E' meglio avere un concorrente come Ford, abituato alle leggi di mercato, piuttosto che un'azienda la cui sopravvivenza è legata alla beneficenza dei fondi di dotazione”, commentò Gianni Agnelli all'assemblea degli azionisti il 3 giugno. Romiti aveva una diversa filosofia: per lui il mercato non era un club di gentiluomini, bensì una guerra condotta con altri mezzi. E in questo caso, Fiat, cresciuta grazie a quel modello che Giuliano Amato ha chiamato, con una fortunata definizione, “protezionismo liberale”, avrebbe avuto il nemico in casa. Dunque, non si poteva più restare fuori, ma come rientrare nella partita senza mostrare la debolezza di un ripensamento? A questo punto, comincia una sarabanda tra politica e affari, tra manager e ministri, tra esperti e giornalisti che, con il passare delle settimane, si trasforma in un frenetico can can. L'11 giugno Romiti e Ghidella si presentano a Montecitorio per un'audizione. Negano categoricamente l'intenzione di comprare l'Alfa, ma fanno capire che non vogliono essere messi fuori gioco. Da quel momento in poi comincia la lotteria italiana, non molto diversa da quella in corso per la Opel. Il ministro dell'industria, il liberale Valerio Zanone, apre le porte agli Agnelli.

    Il suo intervento è interpretato come un via libera da parte di Bettino Craxi e del suo governo. Ma sindacati e partiti sono divisi. Entro fine settembre, sul tavolo di Prodi arriva la proposta Ford. Il primo ottobre ecco quella Fiat basata su tre punti: rilevare tutta l'Alfa, garantire i posti di lavoro, fondere l'azienda del biscione con la Lancia per creare un gruppo in grado di competere con Bmw. Un'ipotesi, quest'ultima, inseguita come una chimera, anzi un miraggio. Da Detroit partono i massimi dirigenti Ford. Arriva anche il presidente Petersen che Prodi e Fabiani accompagnano da Craxi. Si muove in tutta la sua statura il potente ambasciatore americano, Maxwell Rabb. Su incarico del presidente Reagan, abbandonando ogni circospezione diplomatica, si sbraccia con tutte le forze politiche del governo e dell'opposizione per mostrare i vantaggi di avere in casa zio Sam. I partiti litigano. Nella Dc si formano due fazioni: la prima, filo-Fiat, è guidata dal segretario Ciriaco De Mita e da Clelio Darida, ministro delle Partecipazioni statali; la seconda, filo-Ford, vede Vincenzo Scotti, numero due del partito, e Carlo Donat Cattin, il pugnace torinese nemico giurato degli Agnelli. Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, resta dietro le quinte, ma non nasconde la sua irritazione per la retorica cosmopolita e internazionalista che copre interessi molto meno elevati: “Dopo tanto predicare che dovevamo aggrapparci alle Alpi per non sprofondare nel Mediterraneo, viene sventolato il vessillo nazionale”.

    Craxi gioca come un gattone con l'uno e con l'altro, soprattutto impone ai suoi il silenzio. Vuole evitare un altro incidente con gli Stati Uniti, perché è fresco il ricordo della crisi scoppiata a Sigonella. E tuttavia sente la pressione forte del partito milanese (di cui è il capo indiscusso) che spinge per salvare l'Alfa, un vessillo dell'industria meneghina. Anche i comunisti sono spaccati. I torinesi, con a capo Piero Fassino, per Fiat; milanesi (guidati da Gianfranco Borghini) e napoletani (abbondantemente rappresentati da pezzi da novanta come gli amendoliani Chiaromonte e Napolitano o l'ingraiano Bassolino) per Ford. Il migliorista Eugenio Peggio, esperto di economia e vicepresidente della commissione Bilancio a Montecitorio, alza la bandiera della concorrenza.

    Prodi informa Romiti. E la Fiat presenta la sua offerta. Nel 2002, il Prof. dirà: “Volevo venderla alla Ford. Fecero di tutto per impedirmelo e ci riuscirono”. Fabiani smentisce: “Non ho mai ricevuto pressioni né dalla Fiat né dai politici”. Il maggior sostegno, “lo ebbi da Amato, allora vice di Craxi, che mi spiegò il percorso tecnico in sede istituzionale”, racconta invitando a rendere pubblici i veri termini dell'accordo, soprattutto quanto Ford avrebbe pagato per acquisire la maggioranza dell'Alfa. La tesi di Fabiani è che a Finmeccanica interessava vendere tutto, senza tenersi nemmeno una quota di minoranza, mentre gli americani sarebbero entrati per gradi e in ogni caso non avrebbero preso mai più del 51 per cento. Il contrario di quel che proponeva la Fiat, anche se con un notevole sconto. Agnelli e Romiti offrivano 1.050 miliardi di lire, ma in dieci anni. Avrebbero cominciato a pagare la prima tranche nel 1992 e sarebbero andati avanti fino al 1997. Fiat si accollava anche 700 miliardi di debiti e scontava 500 miliardi di perdite.

    Apriti cielo. Comincia allora una polemica che non è mai finita. I partiti della maggioranza salutano con favore la “soluzione nazionale”. I puristi sottolineano che si tratta di “un'asta impropria”. Lo ammette più tardi anche Prodi, secondo il quale quella procedura ha avvantaggiato l'Iri. I nemici del Prof., sia a destra sia all'estrema sinistra, restano tutt'ora convinti che “fu una svendita”. Sul sito del Popolo (oggi partito) della Libertà si trova una circostanziata analisi dei “disastri di Prodi” che ricorda le cifre dell'offerta Ford: subito il 20 per cento dell'Alfa, poi la maggioranza entro otto anni, per 3.300 miliardi con investimenti per altri quattromila. La Commissione europea calcola che la casa torinese, tenendo conto della svalutazione monetaria, alla fine avrebbe pagato non mille e cinquanta miliardi, ma 389,9 appena. Nel 1993 la Procura di Roma apre un'inchiesta, ascoltando Craxi, Prodi, Amato, Darida e Zanone. Il fascicolo è archiviato. La memoria politica di quella vicenda, invece, non è ancora finita in cantina assieme a quei faldoni.

    Non c'è da scandalizzarsi più di tanto, nemmeno ora che l'economia torna una branca della filosofia morale, come ai primordi, nei tempi eroici di Adam Smith. La storia dell'auto è una successione di lotte senza quartiere. Perché, nonostante sia data per cotta e stracotta da almeno mezzo secolo, resta sempre l'industria delle industrie, con il suo impatto sui posti di lavoro, l'indotto, le materie prime (non solo il petrolio, ma il ferro, la bauxite, il caucciù), i materiali (minerali, tessuti, plastiche) le tecnologie, gli ingegneri, la finanza (credito al consumo), le assicurazioni, le banche. Per produrre, vendere, far camminare sulle strade “la macchina che ha cambiato il mondo” (definizione del mitico Mit) bisogna mettere in moto l'intera economia di un paese. Sarà inquinante e dannosa, ma è il mezzo che tutti usano per spostarsi e che vorrebbero usare quelli che oggi non possono.
    Guerre dell'auto, dei cieli, guerre del petrolio, guerra delle monete, guerre dei telefoni e delle televisioni; persino nell'alimentare (per non parlare del tabacco) o nei jeans e nella moda, la politica entra in quelle che dovrebbero essere operazioni di mercato in senso stretto, cioè dovrebbero vedere in campo industriali, finanzieri, lavoratori, risparmiatori, non gli esponenti dei partiti. In Italia gli esempi si sprecano. Escludiamo le privatizzazioni, nelle quali la politica ha giocato da azionista, quindi la faceva per forza di cose da padrona. E ricordiamo qualche esempio più vicino a noi, come quando nel 1999 il governo D'Alema bloccò la fusione tra Telecom Italia e Deutsche Telekom, l'arrocco ideato da Franco Bernabè, per lasciare campo libero ai capitani coraggiosi (Colaninno, Gnutti, Consorte & C.). Scoppiò anche un caso diplomatico con l'allora cancelliere Gerhard Schröder. O quando nel 2001 il gabinetto Amato fermò con una norma ad hoc la scalata di Edf a Edison. O, ancora, il ruolo dell'esecutivo Berlusconi e dei partiti, a cominciare dai Ds, nel 2005, l'estate delle scalate bancarie e dei furbetti.

    Per non essere né provinciali (peccato sia pur veniale) né qualunquisti (peccato mortale) potremmo addentrarci in storie forti, nelle quali è sceso in ballo anche lo spionaggio, e non solo quello industriale. La Francia, dove i “grand patron” viaggiano sempre insieme al presidente, abbonda di vicende eclatanti. Senza risalire indietro nella memoria, al tempo in cui il generale Charles de Gaulle ostacolò il matrimonio Fiat-Citroën, ricordiamo la clamorosa vicenda del 1994, quando il primo ministro Edouard Balladur organizza un blitz in Arabia Saudita assieme ai suoi ministri della Difesa e degli Esteri per negoziare una fornitura di aerei e armamenti, a nome delle imprese francesi produttrici guidate dagli amici Dassault e Lagardère. I tedeschi di Daimler, azionisti forti di Dasa e Airbus, a loro volta chiedono l'intervento del cancelliere Kohl per non restare con un palmo di naso.
    McDonnell Douglas, che aveva ricevuto abbondanti informazioni attraverso il Grande orecchio, ovvero la rete d'ascolto Echelon (questa la versione più diffusa a Parigi), fa il diavolo a quattro tirando in ballo il Pentagono e la Casa Bianca. A questo punto, Bill Clinton alza la sua rete di protezione. I sauditi sono legati agli Stati Uniti da quando Franklin Delano Roosevelt e il re Ibn Saud si incontrarono sullo yacht presidenziale nel Mar Rosso. Dunque, non c'è da scherzare. L'astuto principe Adballah che, dicono i maligni, non disprezzava giocare qualche scherzetto agli infedeli americani (consigliato dai suoi amici wahabiti), per tirarsi fuori d'impaccio dice a Balladur che non avrebbe ottenuto nulla se la Francia non fosse intervenuta in Bosnia a favore degli eroici combattenti musulmani. Alla fine della fiera, McDonnell Douglas si pappa le commesse e in più Boeing sfila un bell'ordinativo di aerei all'odiata Airbus.

    Perfidie mediorientali? E allora che cosa dovremmo dire della proba luterana Angela Merkel, o del barone zu Guttenberg che assomiglia come una goccia d'acqua a Helmut Berger uscito da un film di Visconti? Sono stati messi in scacco dall'Efficienza grigia Frank-Walter Steinmeier, soprannominato così (die Graue Effizienz) quando era capo di gabinetto di Helmut Schroeder, l'ex cancelliere socialdemocratico che ora fa il lobbista per Mosca. Guarda caso, l'austro-canadese Magna è un cavallo di Troia che ha in pancia due oligarchi russi, Suleiman Kerimov (Sberbank e Gazprom) e Oleg Deripaska, marionette di zar Putin, tanto più adesso che la crisi li ha ridotti sul lastrico. Onni soit qui mal y pense. La politica farà pur schifo ai neoqualunquisti plebei o agli intellettuali aristocratici seguaci del poeta Simonide. Ma alla fine della fiera, anche in questo mondo postmoderno, liquido e globalista (o comunque lo si voglia chiamare con una definizione à la page), chi decide è pur sempre il tiranno Gerone.