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Una battaglia privata combattuta il 4 giugno del 1944
Il 4 giugno del 1944 il cielo era limpido e azzurro, d'una pacatezza lontana, come è spesso a Roma. Ma la città appariva inquieta e insicura. Erano passati otto mesi dal quell'otto settembre che aveva visto sfasciarsi ogni forma e parvenza di stato e la città abbandonata al riflusso tedesco. Otto mesi terribili, un coprifuoco che costringeva nelle case uomini e donne chiusi nelle loro ossessioni.
Il 4 giugno del 1944 il cielo era limpido e azzurro, d'una pacatezza lontana, come è spesso a Roma. Ma la città appariva inquieta e insicura. Erano passati otto mesi dal quell'otto settembre che aveva visto sfasciarsi ogni forma e parvenza di stato e la città abbandonata al riflusso tedesco. Otto mesi terribili: un coprifuoco che costringeva nelle case uomini e donne chiusi nelle loro ossessioni, la deportazione degli ebrei del ghetto il 16 ottobre 1943, la strage di via Rasella del 23 marzo 1944 e il massacro delle Fosse Ardeatine, filtrato e dilagato a tam tam nonostante il silenzio ufficiale, le vociferate violenze fasciste di via Tasso e i rastrellamenti degli uomini, i bombardamenti nelle periferie e lungo le strade d'accesso – una cinquantina, di varia intensità – che rendevano vana la proclamazione di Roma “Città aperta” dell'agosto 1943. Per il più dei suoi abitanti la parola d'ordine era stata, per tutto quel tempo, arrangiarsi. Il termine diventerà famoso, anche schernevole: arrangiarsi per vivere e sopravvivere, per schivare i pericoli della guerra, la pressione e le durezze messe in atto dall'occupante; ma, prioritariamente, arrangiarsi per mangiare, accendere il fuoco, riscaldarsi, avere la luce di notte. Soprattutto, per mangiare.
Fin dai giorni precedenti, troppi segni dicevano che qualcosa stava per accadere. Lo svolìo ronzante degli aeroplanini da ricognizione alleati si era fatto più insistente e più fitte le incursioni radenti degli Hurricane e degli Spitfire o il volteggiare altissimo dei Lightning americani; quando quelle farfalle d'argento dalla doppia fusoliera apparivano voleva dire che era in corso un bombardamento, facevano da scorta ai tozzi Liberators inglesi o alle Fortezze Volanti americane venuti in formazione a sganciare le loro bombe su San Lorenzo o in qualche lontana periferia. Si era diradato anche, nelle ultime ore, il numero delle auto, dei camioncini, dei carretti, che si arrampicavano per via Salaria provenendo dalle campagne, spesso con feriti, morti o moribondi colpiti, maciullati – una Guernica quotidiana – dalle sventagliate degli aerei che mitragliavano da bassa quota le carrette ansimanti, i camioncini raffazzonati su vecchie automobili, con i loro poveri carichi di gente in fuga o in viaggio, di merci miserabili destinate forse a un mercato romano dove anche Gioli andava a fare la fila, nelle mattine fresche e limpide, per comperare qualcosa di commestibile, qualcosa purchessia, per mangiare anche quel giorno: un altro giorno, nell'attesa.
Il tempo dell'attesa stava ora precipitando. Da alcuni giorni circolavano voci incontrollabili sull'avanzata degli alleati, ma Gioli diffidava: ieri, mesi prima, voci analoghe si erano rivelate deludenti o false, qualcosa aveva frustrato speranze e trepidazioni. Come nei giorni dello sbarco ad Anzio, quando a folate erano corse le voci: “Sono a Latina!, sono a Frascati!, sono a Centocelle!”. L'attesa si era sgonfiata e il tempo si era allungato in notti sempre più fosche, inquiete, paralizzanti: di paura, di angosce, di fame soprattutto. Quel pomeriggio però Gioli avvertì che qualcosa stava davvero accadendo. Proprio sotto casa sua, sotto il giardino dalle rose e il gelsomino rinsecchiti per la mancanza di acqua, cominciarono a sfilare truppe tedesche, un lungo, sottile corteo diretto verso la via Salaria appunto, accesso ma anche uscita da Roma. Quei soldati avevano un aspetto fosco, incutevano timore. Nelle loro tute mimetiche, sotto gli elmetti piatti e chiusi da un doppio cinturino sotto il mento, erano carichi di armi: fucili o mitragliette brunite, bombe a mano cilindriche con il breve manico di legno infilate nella cintura, pistole Luger dentro i tozzi foderi, nastri di proiettili, pesanti cassette metalliche. Ognuno di quei soldati era una macchina da guerra, paurosa, lontana e ostile. Camminavano a passo sostenuto ma lento, in fila per uno, salendo su da via Arbia – via di brevi passeggiate, di silenziosi incontri di amori, con gli alberelli colorati e i sampietrini sulla carreggiata – per poi girare a destra davanti al muro di Villa Ada, la residenza di re Vittorio Emanuele III, fuggiasco, con la famiglia e la corte, per raggiungere Pescara e l'Italia liberata. Camminavano però straccamente, senza quella concentrazione che indicasse un obiettivo da raggiungere, un ordine da eseguire. Semplicemente camminavano, per spostarsi da un luogo all'altro. Per andarsene?
L'ora trascolorava in un tramonto sereno. I paracadutisti tedeschi sfilavano in una solitudine totale. Non un saluto dato, non uno ricevuto. Non un volto amico, non un ricambio cortese. Non un rimpianto. Eppure, nelle ore del trionfo, dell'apparente sicurezza, della burbanza, qualche porta si era socchiusa, qualche casa si era illuminata per accoglierli, per fraternizzare con i ragazzi in divisa, meglio se accompagnati da un dono, da qualcosa da mangiare, da bere, nelle dolcezze della conversazione. Gioli cominciava a essere impaziente. L'incertezza si faceva divorante. Bisognava sapere, forse agire. Come non essere presenti, là dove qualcosa, la cosa sperata, poteva accadere? Nessuna notizia arriva? Andiamo a cercarle.
La sera calò la sua coltre soffice, qualche luce brillò nelle case. Gioli aveva imparato, nei lunghi e freddi mesi d'inverno, a fabbricarsi dei lumini fiochi ma utili per studiare. Non era difficile fabbricarli. Occorrevano due tubetti, uno dei quali di vetro, di quelli che allora contenevano certe pastiglie mediche assai diffuse. Bisognava togliere il fondo a quello di vetro, cosicché risultasse aperto alle due estremità. Con del sottile filo metallico si attorcigliava poi una rigida barretta che terminava in due anelli del calibro dei tubetti. In uno degli anelli, ripiegati ad angolo retto, si incastrava il tubetto metallico, nel quale si versava dell'acqua tranne gli ultimi due centimetri, dove si lasciava cadere un filo d'olio, olio di cucina. Nell'olio si immergeva uno stoppino di filacce, strappate a un rotolino di garza medica dimenticato nell'armadietto della farmacia di casa. Infine si inseriva il tubetto di vetro nell'anello superiore, perché fungesse da camino. Ne veniva fuori una caricatura formato mignon delle antiche lanterne ad olio o a petrolio. Irradiava un alone giallastro di una trentina di centimetri, nel quale era però anche piacevole immergersi, ti dava l'atmosfera per una volenterosa lettura.
Fu uno degli artifici che consentirono di superare quell'inverno. Il problema più serio era però costituito dall'assenza di gas per cucinare. Gioli imparò presto a sradicare, strappare, spaccare spezzoni delle panchine di legno, o dei rami degli alberi del parco dietro casa. Era legname fresco, umido, fumigava, scaldava poco, consentiva appena di mandare a bollore l'acqua per una pentolata di pasta di nera segala, da mangiare senza condimento alcuno, per lo più. La pasqua di quell'anno venne festeggiata cucinando una testa di caprone, privata del prezioso cervello ma con tutte le corna, la lingua fuori e torridi occhi di demone sotto le lunghe ciglia da albino. La fila dei soldati scomparve dietro l'angolo tra via Arbia e via Salaria. Cominciava l'attesa di altro. Nel cielo continuavano a volteggiare i piccoli aerei ricognitori, leggeri come libellule. Era già quasi notte quando Gioli prese la decisione. Salì in camera sua, aprì l'ultimo cassetto in basso dell'armadio, estrasse la pistola dal ripostiglio: una pistola belga, calibro 7.65, che lui aveva trovato nel parco dietro casa nei giorni dopo l'8 settembre, abbandonata da qualche ufficiale della divisione Piave che lì era stata accampata e che, dopo la resa badogliana, si era dissolta, con ufficiali e soldati che si dispersero per tornarsene a casa, a piedi o con mezzi di fortuna. Durante i cauti nascondimenti di quei mesi non era mai servita.
Gioli si infilò l'arma nella cinta dei pantaloni, disse qualcosa di vago ai suoi, si mise in cammino, dirigendosi verso il centro della città. Percorse strade ampie e oscure, piazze allucinate. Negli ultimi mesi, quelle strade e piazze erano state deserte e silenziose, il coprifuoco non ammetteva deroghe, incombeva come una cappa di violenza. Ma adesso le riempiva un'animazione nuova, incerta e curiosa. C'era gente ovunque, in capannelli, in gruppetti, fermi dinanzi ai portoni socchiusi oppure già incamminati tutti nella stessa direzione, il centro. Nel buio, quegli uomini e donne sembravano ombre agitate e folli. Si sentivano grida forti e insistite, ma non più compresse, anzi ilari. Verso piazza della Repubblica non si poteva più parlare di gruppi, c'era una sola folla che camminava a ondate. All'inizio di via Nazionale, la folla appariva bloccata come un terrapieno di schiene percorso da grida festose, da un vociare scomposto. Gioli arrivò, trafelato. Tra i rumori ora dominava un rombo diverso, il rombo di motori dal suono sconosciuto. Gioli si fece largo tra la calca: davanti gli scorrevano i grossi camion militari dell'esercito americano, con la stella bianca iscritta in un cerchio, come quella che lui aveva visto sulle carlinghe degli aerei spadroneggianti sui cieli. Applaudì, gridò. Qualcosa lo colpì al viso. Si chinò, sul marciapiede c'era una manciata di caramelle sparse. Le raccolse, se le guardò nel palmo della mano, le cacciò in tasca. Corse, si arrampicò sul primo camion che gli passò davanti. Seduti sulle panche laterali, i soldati americani con il fucile tra le gambe, fumando, ridendo, schiamazzando. Gioli balbettò qualche parola del suo scarso inglese scolastico. Quelli lo guardavano, uno lo apostrofò, in italiano: “Tu, sorella, segnorina?”.
Riprese a ritroso la strada verso casa. La notte era spessa, tra i muri delle case e il cielo. Arrivò a piazza Fiume, deserta. Da quel vuoto rimbalzò una voce che gridava qualcosa in un lingua difficile. Gridò, o forse balbettò “I am italian”, dal buio si staccò un'ombra, si materializzò in un soldato americano – un nero – che gli si avvicinò sospettoso con il fucile imbracciato: lo scrutò, gli fece cenno di passare. Gioli riprese a camminare, scese per via Nizza. Un crepitare di spari lo sbattè nell'androne di un portone. La sparatoria durò anche troppo, angosciosa. Quando ebbe cessato, Gioli riprese a camminare strisciando contro il muro. Arrivò finalmente a casa. Salì alla stanza da letto dei genitori. Loro si svegliarono, Gioli estrasse dalla tasca una manciata di caramelle, le posò sul comodino accanto ai letti.
La mattina dopo, il cielo era ancora luminoso. Giolì si alzò in fretta, dalla strada salivano rumori festosi, nuovi. Lungo il marciapiede, distesi, accovacciati o solo appoggiati con le spalle al muro di cinta del giardino, soldati americani. Che stupore! Tutto, in quelle divise, in quei comportamenti, in quegli atteggiamenti, risultava nuovo e incredibile. Erano soldati: ma le loro divise, le camicie o i pantaloni, di un morbido gabardine khaki, mostravano ancora le piegature perfette della stiratura. I pantaloni erano infilati dentro stivaletti lucidi e con la suola di gomma, senza le chiodature degli scarponi militari italiani o tedeschi. Quegli stivaletti non stridevano, si piegavano morbidamente sotto l'andatura di quei ragazzoni dinoccolati. In testa avevano gli elmetti, ma erano anche questi una novità. Gli elmetti erano due, infatti, quello esterno di acciaio, l'altro, dentro al primo, di plastica marroncina e flessibile.
La maggior parte dei soldati avevano in testa questo mentre avevano riempito d'acqua l'altro, l'elmetto di acciaio, mettendolo poi a scaldare su piccoli fornelli, e si stavano radendo, con il pennello da barba intriso di schiuma e risciacquato man mano nell'acqua dell'elmetto; altri mangiavano, estraendo, da scatole di cartone piatte e lunghe, barrette di cioccolata profumata, sigarette dolciastre, caffè in polvere, fiammiferi, cubetti di zucchero, scatolette di carne, di formaggio, crackers. Il tutto con l'indifferenza indolente di chi non ha problemi di risparmio, può consumare tutto senza problemi, magari buttar via. Accanto al marciapiede, strane automobili, squadrate come scatole, scoperte, il volante ampio, gli strumenti pochi e spartani, un parabrezza che si ripiegava sul cofano, quattro sedili di stoffa. Più tardi le sentì nominare, le prime jeep che avesse mai visto. E arrivarono anche alcuni motociclisti in divisa. Issati su motociclette lunghe come sigari, con le ruote piccole, saltellanti a ogni buca dell'asfalto, sedevano non sul sellino, ma sul serbatoio della benzina, così da mantenere una posizione molto eretta, con le mani sul manubrio che si allungava fin dietro le loro spalle. Somigliavano alle polene degli antichi velieri. Quei motociclisti avevano l'elmetto di plastica, occhiali verdi con stanghette dorate, fazzoletti gialli annodati al collo, pellicce o finte pellicce di leopardo sul sellino, masticavano la mitica gomma americana, e avevano sul braccio destro una fascia, con su scritto “MP”, “Military Police”. Correvano voci portate dalla gente più disparata. In mezzo ai gruppetti dei curiosi, Gioli scorse Ugo, anzi Ughetto, un ragazzino sveglio che incontrava spesso al parco. Anche lui strillava, “C'è una battaglia, lassù, oltre piazza Vescovio! Ci sono i tedeschi, resistono ancora”. Gioli salì in camera sua, tirò fuori la pistola che aveva riposto tra magliette e cianfrusaglie, scese di nuovo in strada. C'era ora anche Lucio, a girellare e curiosare. L'intesa fu immediata, decisero di andare.
Era giunta l'ora, finalmente. Si allontanarono dai gruppetti degli sfaccendati, richiamati dall'assurdo spettacolo della guerra, salirono verso piazza Vescovio, presero una strada sterrata che si infilava tra gli orti, tra le ultime case della città. Dopo un centinaio di metri, una spianata brulla dove la terra era nuda, disossata, e poi un franare di scarpate sulle quali allora terminava la città. Gioli camminava leggero, Lucio lo seguiva a un paio di metri. Lo stradello finiva davanti a una baracca metallica, un garage improvvisato con un paio di cani brunicci e terrosi legati a lunghi fili d'acciaio, una specie di aia ingombra di macchinari, un trattore di vecchio modello, aratri col vomero all'aria e erpici rugginosi, una tettoia di lamiera dove troneggiava silenzioso, inutile, un ceppo nero con l'incudine del maniscalco, o del fabbro. Si sentiva, vicino, un tuf-tuf di spari. Un cane cominciò ad abbaiare e mostrò i denti, ma non si mosse da dove stava accucciato. Gioli e Lucio traversarono l'aia e girarono dietro la casupola; dietro, il terreno, tra siepi di sambuco e di felci, un fitto di canne dai ciuffi scuri, i malvoni dai fiori violacei e le spighe esili dei forasacchi, sprofondava sulla vallata digradante del fiume laggiù in fondo, l'Aniene grigio lercio. Oltre, la campagna si distendeva fino a un orizzonte di colline gibbose. Quasi inciamparono sul primo di una fila di soldati, stesi per terra o inginocchiati, col fucile spianato o la mitraglietta al fianco. Proprio in quel momento uno premette il grilletto dell'arma. Il rinculo lo fece sussultare. L'uomo si voltò, si abbassò appuntellandosi sul gomito, poggiò sul ginocchio il fucile, estrasse il caricatore vuoto, lo gettò a terra, cercò nella giberna di stoffa un nuovo caricatore, lo inserì nell'alloggiamento. Non riprese a sparare, si fermò a guardare i due ragazzi, ma senza stupirsi, sempre masticando gomma. Aveva uno sbaffo sulla guancia, di morchia oleosa.
I soldati allungano il collo, scrutano tra le ramaglie, il fogliame. Sulla destra, a una diecina di metri, un gruppetto di civili, ma con giacchette militari ornate di fantomatici gradi, o camicie spiegazzate. Sono giovanissimi, con la naturalezza dei giovani calcano sulle teste, forse per la prima volta, elmetti, bustine grigioverdi residui di chissà quale guerra e quale esercito, o solo fazzoletti con il nodo ai quattro pizzi. Hanno anche pesanti giberne di pelle attraverso al petto mingherlino. Uno impugna una pistola, altri armeggiano attorno ad una mitragliatrice leggera, un vecchio modello dell'esercito italiano con la forcella del cavalletto all'estremità della canna. L'arma, forse arrugginita, non risponde alle loro intenzioni, uno si stufa di attendere e spara tutto solo qualche colpo con la pistola, il rumore è sbattuto poi smorzato dall'aria piumosa dell'estate, gli altri approvano e gli danno manate sulla spalla. Coi loro volti corruschi e importanti si fanno forza reciprocamente, ma restano isolati e soli, inadeguati, i soldati americani non li degnano di uno sguardo. Gioli si insinua tra questi annusando il sudore dei corpi, il sentore acre degli spari. Per terra, bossoli vuoti. Scavalca i corpi distesi, si accuccia accanto a un soldato che sta prendendo la mira col pesante fucile e comincia a sparare. Si cala dentro il frastuono, i colpi si susseguono regolari, chissà quale impulso spinge il soldato ad accanirsi, a non smettere come hanno fatto gli altri, mentre il bersaglio resta invisibile o quasi, laggiù in basso sotto siepi e ciuffi di alberi. Tra i sambuchi e le robinie, l'Aniene e, appena oltre, un casale che è forse una fattoria o un'osteria di campagna, intorno a un'aia. Sembra che si risponda al fuoco da lì, e che mirino proprio quassù, la sparatoria è tra i soldati celati in questi due gruppi di baracche che si fronteggiano, di qua e di là dal fiume. La via Salaria si snoda a mezzo chilometro sulla sinistra e supera il fiume su un ponte dai parapetti di cemento a losanghe. Per uscire da Roma devi passare di lì. E allora si capisce che i tedeschi della fattoria là in basso sono stati lasciati di retroguardia, un'esca traditrice per mordere ai fianchi, ritardare l'avanzata degli alleati. Devono essere abbastanza organizzati, da quei tetti di lamiera sbuca la torretta di un semovente, bluastra. L'aria rifrange con uno stridio i colpi sempre più fitti, a inseguirsi rabbiosamente, dei fucili, dei machineguns, forse di un mortaio.
Il soldato a terra ha occhi inespressivi, non mostra fretta nemmeno quando preme il grilletto e il fucile obbedisce col suo sputo sordo. Inerti o già stanchi, gli altri più in là non paiono più inquieti o preoccupati. Il sole è ormai alto sull'orizzonte, fa caldo, le cornacchie saltellano e svolazzano tra i rami delle robinie, schizzando alte quando un colpo esplode più vicino e fragoroso. Venendo da dietro, e Gioli ne percepisce lo scalpiccio con l'orecchio in allarme, piombano sulla posizione uomini in gabardine khaki, uno di loro regge sulla spalla una mitragliatrice pesante di cui altri portano il treppiede, le casse dei nastri. Gridano parole che sfuggono a Gioli, si buttano anche loro a terra, dall'altra parte del soldato che continua a sparare il suo fucile e a cambiare con indifferente calma il caricatore. Sistemano la mitragliatrice, regolano l'alzo, aggiustano la mira indicandosi il mucchio delle casupole oltre il fiume, il cingolato appena distinguibile. Estraggono da una cassa d'acciaio il lungo nastro dei proiettili, e subito si snoda il becchettio regolare, spari che si arrotolano nell'aria e nelle orecchie di Gioli, affascinato. Sparano, gli uomini in khaki, qualche decina di colpi, seguono col binocolo le traiettorie, fino al bersaglio che Gioli non riesce a distinguere bene. Nella baracca dei tedeschi, laggiù, c'è più silenzio, nessun segno di vita, o di morte. La guerra, pensa Gioli, sembra che debba sempre accadere, scoppiare, ma dove è? Dove scoppia, e quando? Sembra sempre allontanarsi. Dove è l'evento temuto, se non accade mai, se non è fatto da qualche parte, da qualcuno, da te o da quello che è accanto a te, a fianco a te, qui, e resta inafferrabile anche in mezzo a questi spari inutili, vuoti, deserti?
I soldati confabulano, non sembrano soddisfatti. Uno di quelli che armeggiano con la mitragliatrice si accorge di Gioli, gli fa cenno di avvicinarsi, gli batte una mano sulla spalla, dice qualcosa che lui non capisce, non riesce a decifrare. La voce dell'uomo è aspra, però non cattiva. Si rende conto che Gioli non capisce, comincia allora una mimica delle dita e degli occhi. Estrae dal nastro un proiettile che ha l'ogiva verniciata di rosso, lo mostra al ragazzo, poi lo butta via. Fa scorrere il nastro come un rosario, e dopo quattro o cinque – forse dieci – altri proiettili non marcati ne tira fuori un secondo con l'ogiva rossa; anche questo fa la fine del primo, va a rotolare nella polvere. L'uomo ammicca a Gioli, gli ingiunge a cenni di andare avanti, di fare come lui gli ha mostrato. Ok? Ok.
Gioli si sente emozionato, fertile. Estrae un primo, un secondo proiettile, altri in cadenze che si fanno via via precise, regolari. Il soldato annuisce soddisfatto. Il nastro si attorciglia ai piedi di Gioli, nella sequenza dei proiettili appaiono i vuoti di quelli estratti. Quando, poco fa, la mitragliatrice sparava, Gioli aveva notato le strie biancastre lasciate dai traccianti: quando ora l'arma riprende a sparare, in brevi raffiche, dalla sua canna non escono più le scie. “Ok”, dice il soldato a Gioli, con l'indice e il pollice chiusi ad anello e l'occhio strizzato e complice. Vanno avanti così per un po', Gioli si è dimenticato di Lucio, lo ha perso di vista, continua a svuotare altri contenitori e a sfilare proiettili dai nastri. Quando ha finito, la mitragliatrice ha però smesso di sparare. Ora, i soldati in khaki si danno la voce e indicano un punto al di qua del ponte, sulla sinistra, dove la città si dilegua improvvisamente perdendosi nella campagna. Vi si arriva alla fine di una lunga discesa in curva della Salaria, lì i palazzi bruscamente finiscono liberando la vista delle colline e i cavi dell'alta tensione dondolano tra le campate dei piloni, scavalcando anche il serpente giallo del fiume. Di lì in poi, via Salaria si raddrizza, affiancata dai platani, e scorre via fino all'orizzonte, inquietante e tremolante nella calura estiva.
Sbucando da quelle ultime case, sono apparsi due carri armati, la stella bianca sulla fiancata. I motori ruggiscono un istante e i cingoli svergolano sull'asfalto cercando la migliore posizione. Sono le torrette, poi, a girare lentamente e subito partono i colpi, gli spari sono attutiti dalla luce acciecante. E' stato tutto estremamente rapido, e un istante dopo, tra i capannoni e i tetti delle baracche dove sono annidati i tedeschi, si sollevano colonne di terra e di fumo. Un colpo cade di lato, fuori bersaglio, affondando in un nuvolone polveroso. I soldati accovacciati accanto a Gioli fanno smorfie di approvazione.
Ma l'uomo che ha ordinato a Gioli di sfilare i traccianti gli grida ora qualcosa. Il suo volto si è indurito, “get away, boy”, grida, assieme ad altro che Gioli non capisce. “Get off, get off”. Afferra Gioli, lo sospinge in malo modo: altri colpi partono dai due carri armati in fondo alla strada, l'atmosfera si è surriscaldata, c'è un agitarsi inquieto. Anche i soldati a terra sparano, tutti assieme, i colpi sventagliano tra le foglie dei sambuchi. Gioli scivola sull'erba nella confusione, cerca di allontanarsi, risale la scarpata. Dove sarà Lucio? Raggiunge le baracche, gira attorno a una di esse, esce sull'aia. Lucio non è nemmeno qui. Alcuni soldati, appoggiati a un basso attrezzo agricolo di legno, conversano, figurine scure che Gioli non distingue nel barbaglio dell'atmosfera rovente. Non sembrano occuparsi di quanto avviene alle loro spalle, al di là della casupola. Quando passa accanto a loro, uno gli offre una sigaretta, amichevole. Gioli è rinfrancato, solo sapesse dove è Lucio. Un cane comincia a uggiolare, disteso nella polvere, con aria spaventata. Gioli fa cenno che la sigaretta è buona ma, mentre vorrebbe spiccicare qualche parola, aggrapparsi a una familiarità di cui si vergogna un po' ma gli pare, in quel momento, d'obbligo, i soldati spariscono, si sono gettati a terra. L'aria è squarciata da un sibilo, Gioli resta di stucco, un boato e un altro lacerano il vuoto, l'aria è una vampa rossa, carica di terra e polvere, in raffiche pungenti e graffianti, percorse da sagome impazzite, volteggianti: lamiere strappate dalle baracche, pezzi di legno, finimenti, la ruota di un carro: sbattono, ricadono al suolo sussultando, si accartocciano su se stessi, in pezzi, in frammenti, stritolati da una estranea violenza. La terra sussulta. Dove è Lucio, mio dio? Dove mai è finito Lucio, in questo inferno.
E Gioli comincia a correre, con polvere in gola e negli occhi. In mezzo all'aia il cane, rovesciato indietro, guaisce debolmente, dalla bocca esce sangue fumante. E' ancora legato al collare, la testa resta sollevata da terra, trattenuta dal filo di acciaio che sega la pelle dietro l'orecchio. Gioli corre verso un campo di granturco dal fogliame risecchito. Scavalca il filo spinato della recinzione, sente i graffi delle punte metalliche, si getta tra i filari, nel crepitio delle foglie. Dove sarà Lucio? Gioli è piegato in avanti, il capo sfiora appena le pannocchie più alte. Continua a correre. Alle sue spalle, altri colpi di cannone rotolano, sembrano inseguirlo. Sente il ghigno della paura che lo ha insidiato, che ora gli ride dietro. E' fuggito, continua a fuggire, perché in fin dei conti non sa ancora cosa è la guerra, non ne conosce nemmeno i rumori, il fragore che lo ha scacciato via, lo insegue, gli impedisce di fermarsi, lo riempie di vergogna e di una ilarità incontrollate.
Finché sbuca oltre il campo, dove il filare si è aperto immergendolo nella luce chiara. E Lucio sbuca anche lui da un filare parallelo, barcollante nell'orrore. Si danno la mano, continuano a correre, appena sollevati da terra. Corrono via da qualcosa che non conoscono, e che dunque possono solo raccontare a chi non gli crederà, probabilmente. Si fermano per riprendere fiato. Tutto bene? Tutto bene. Spolverandosi la giacca, Gioli scorge sulla manica destra, a metà dell'avambraccio, uno strappo, un foro grande come una moneta. Si sarà strappato con il filo spinato, pensa a come sua madre si arrabbierà, possiede solo questa giacca, è la giacca buona, dio santo. Se la sfila. Sulla manica della camicia, altro strappo. La tira su, sopra il gomito, e sull'avambraccio c'è un foro nella pelle. Solo una macchia di sangue, si scorge qualcosa che non è carne, di color grigio metallico. Gioli infila il dito cautamente, estrae dal lembo rosso della ferita come un sassolino, poco più di un centimetro di diametro. Lo osserva con sorpresa. E' la scheggia di uno dei proiettili del carro armato tedesco. Il braccio ora sanguina. Gioli arrotola la camicia, si getta la giacca sulla spalla. Insieme a Lucio prendono la via di casa. A piazza Priscilla, nell'edificio dove ci sono le catacombe, c'è una tenda, un piccolo ospedale da campo, con infermiere, militari. Gioli si avvicina, un paio di infermiere lo disinfettano, lo fasciano. Gli prendono il nome, altre piccole formalità: ci sono stati feriti, colpiti dai carri armati tedeschi. I giornali, il giorno dopo, parleranno anche di un morto. E' un ragazzino di dodici anni, si chiama Ugo Forno. Ughetto.
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