Di Lega e di governo
Il paradosso della Lega sta forse tutto nella prima apparizione televisiva, domenica sera, del ministro dell'Interno Roberto Maroni. Nella veste istituzionale di responsabile del Viminale ha illustrato i dati di affluenza e con la trattenuta soddisfazione di un consumato uomo di governo ha poi commentato: “L'Italia ha probabilmente la percentuale di affluenza più alta in Europa”, aggiungendo: “Siamo un paese molto europeista”. Leggi Che ce ne facciamo di questa Europa?
Il paradosso della Lega sta forse tutto nella prima apparizione televisiva, domenica sera, del ministro dell'Interno Roberto Maroni. Nella veste istituzionale di responsabile del Viminale ha illustrato i dati di affluenza e con la trattenuta soddisfazione di un consumato uomo di governo ha poi commentato: “L'Italia ha probabilmente la percentuale di affluenza più alta in Europa”, aggiungendo: “Siamo un paese molto europeista”. In quel momento il ministro leghista, il politico padano mai tenero con “l'Europa delle burocrazie”, sarebbe stato perfettamente interscambiabile con un Beppe Pisanu o con uno qualunque dei suoi predecessori. Il militante euroscettico, nemico di Bruxelles, in passato critico dell'euro, convive ormai senza strattoni con lo statista, ministro di un governo che nonostante le accuse di eurofreddezza e persino di xenofobia che gli piovono addosso fa parte dell'Unione con una dose di realismo superiore a tanti altri, tratta con autorevolezza in sede europea le politiche di controllo dell'immigrazione esattamente come in Italia porta avanti nelle sedi istituzionali le sue istanze federaliste.
Il Maroni di lotta e di governo è solo un'immagine, ma dietro c'è la realtà di un paradosso più sostanzioso. Accanto all'astensionismo e al naufragio delle sinistre continentali, il dato più netto del voto di domenica è l'affermazione in quasi ogni nazione di un consistente fronte euroscettico, quando non decisamente eurofobico. Il “pericolo” prospettato dal presidente uscente Hans-Gert Pöttering, che nel prossimo Parlamento “ci siano più partiti estremisti” si è realizzato. Accanto ai trentacinque deputati del gruppo Europa per le nazioni, non proprio euroentusiasta, di cui fa parte il movimento di Umberto Bossi, ci saranno ben venti esponenti eletti dalle formazioni euroscettiche che fanno riferimento all'Independence Democracy Group.
L'exploit maggiore l'ha conseguito in Gran Bretagna l'Ukip, secondo partito col 17 per cento. Ma significativi sono i due deputati guadagnati, per la prima volta, dal British National Party (6 per cento), formazione antisistema e venata di xenofobia. In Olanda il Partito della Libertà di Geert Wilders ha sfiorato il 17 per cento, quasi al 15 è arrivata la formazione xenofoba ungherese Jobbik, al 12 i nazionalisti bulgari di Ataka.
In Austria il social-populista Hans-Peter Martin ha tre seggi. Avversione per le istituzioni comunitarie, autonomismo, tratti più o meno forti di diffidenza verso il melting pot etnico e politiche limitative dell'immigrazione sono tratti che accomunano tutti questi partiti alla Lega. La differenza con il movimento padano di Umberto Bossi è che nessuna di quelle formazioni è attualmente al governo, né lo è mai stata in precedenza – a parte in Polonia il partito dei gemelli Kaczynski. L'altra differenza che quasi tutti questi movimenti – forse a esclusione dell'Ukip, cui ieri la stampa inglese riservava analisi in chiave di nuovo credibile competitor nazionale – rappresentano nel panorama continentale un'anomalia da tenere sotto controllo, qualcosa di vicino all'impresentabilità, secondo gli archetipi di Le Pen o del defunto Heider. In Olanda le posizioni di Geert Wilders sull'islam lo hanno costretto addirittura a una vita blindata, oltre che a un pesante ostracismo politico e culturale.
La Lega nord è riuscita col tempo, grazie a un'allenza di lunga durata col centrodestra, a sfuggire a queste trappole. Ha ormai una lunga esperienza di governo locale e nazionale, ha smesso da tempo di agitare secessioni e moschetti, si pone e realizza obiettivi politici ambiziosi ma realistici e condivisi. Il politologo Ilvo Diamanti in un suo saggio uscito pochi giorni prima del voto (“Mappe dell'Italia Politica”, Il Mulino) segnala tra l'altro come l'essenza territoriale della Lega abbia determinato in modo differente il suo rapporto con l'Europa.
Una delle molle del voto leghista è sempre stata la “frustrazione comparativa”, dice Diamanti, ovvero “il piccolo nord che chiede visibilità, riconoscimento in misura adeguata al ruolo economico”. Lo stesso atteggiamento la Lega lo ha maturato verso l'Europa. La collocazione pedemontana del suo elettorato, che vive in stretto rapporto economico con tutta la fascia transfrontaliera che va dalla Francia ai Balcani, ha sempre convissuto con una certa visione celtica dell'“Europa dei popoli e delle regioni”. I leghisti hanno nel Dna una timida simpatia per un'Europa capace di dare “riconoscimento e rappresentanza alle autonomie subnazionali, e promuove la costituzione di nuove entità subfrontaliere”. La Lega che detesta la “burocrazia di Bruxelles” convive paradossalmente il suo europeismo euroscettico, ma non antisistema.
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