Le avventure di Crash Gordon
Numeri piccoli, piccolissimi, infimi scandiscono l'ennesima giornata di tragedia per Gordon Brown. Il blog del Financial Times che si occupa di Westminster li mette brutalmente in fila: il Labour è il terzo partito nei governi locali del Regno Unito, con meno eletti rispetto ai Lib-Dems per la prima volta dalla Prima guerra mondiale; in Europa il Labour scivola dietro gli euroscettici dell'UK Independence Party.
Numeri piccoli, piccolissimi, infimi scandiscono l'ennesima giornata di tragedia per Gordon Brown. Il blog del Financial Times che si occupa di Westminster li mette brutalmente in fila: il Labour è il terzo partito nei governi locali del Regno Unito, con meno eletti rispetto ai Lib-Dems per la prima volta dalla Prima guerra mondiale; in Europa il Labour scivola dietro gli euroscettici dell'UK Independence Party; il Labour è sceso sotto il 20 per cento, al 15,8, per la prima volta dal 1910, quando il partito aveva quattro anni di vita; il Labour non ha più parlamentari nel sud-ovest del paese per la prima volta da sempre, e ha perso in Galles per la prima volta dalla Prima guerra mondiale.
Intanto un altro membro dell'esecutivo – l'ottavo nell'ultima settimana – ha lasciato il governo, accompagnando le dimissioni con la solita reprimenda: “Brown vuole continuare a combattere – ha detto Jane Kennedy, sottosegretario all'Ambiente – ma temo che questa lotta durerà fino a che non si consumerà l'amara fine del New Labour”. L'annichilimento del partito di governo è stato causato “da tutti quei colpi orchestrati” dal premier, “un tipo di politica che ho rifiutato in tutta la mia vita da adulta, non posso davvero dire che è l'uomo giusto per guidarci”. I laburisti sono anch'essi in grande subbuglio e ieri si sono riuniti per decidere il da farsi: lo statuto prevede che almeno 70 parlamentari presentino mozione pubblica, con nome e cognome, per rimuovere Brown, presentando il nome del sostituto. A Westminster si scommette su quanto questi eterni golpisti “have the guts”, abbiano il fegato di procedere con il plotone d'esecuzione, ancor più dopo che il Times li ha definiti “cinici e codardi”.
Brown imperterrito lavora al rimpasto più surreale della storia, arruolando chi ancora rimane e cedendo di fatto la regia a Peter Mandelson, l'ex nemico assurto a garante del governo. Vuole creare un gruppo solido – si fa per dire – con la vecchia guardia, parare gli eventuali colpi dei giovani e, com'è ormai usanza di questo esecutivo, tirare a campare. Andrew Rawnsley, editorialista dell'Observer e autore di un documentario sul premier – “Crash Gordon” – andato in onda ieri sera su Channel 4, dice al Foglio che “se supera la settimana, Brown resterà fino all'autunno”. E' un “se” gigantesco, considerati i numeri e la rabbia, ma il momentum, come lo chiamano gli inglesi, del regicidio sembra a molti passato, perso, finito. Rawnsley conferma, spiega che non si trovano “killer” disposti a metterci la faccia, nonostante la preda sia tanto debole. E' questa la fortuna che già da un anno e mezzo – da quando, nell'autunno del 2007, lo sventurato Brown, ancora vagamente popolare, ipotizzò l'idea di andare a elezioni anticipate ma poi mancò di coraggio e decise piuttosto di vivacchiare – assiste il premier. Sono stati organizzati golpe più o meno credibili – David Miliband è sembrato il più credibile, giusto il tempo di una settimana nell'estate scorsa – ma sul più bello nessuno ha affondato la lama. Bill Emmott, ex direttore dell'Economist oggi commentatore e saggista, spiega che nel caos in cui è piombata Londra tutto può davvero succedere, ma che Brown “farà quel che può per sopravvivere, e probabilmente ce la farà nel momento in cui riesce a formare un nuovo governo”.
Il governo, appunto, quella specie di esecutivo che parte così azzoppato da non poter aspirare a nulla, se non trascinarsi fino all'autunno – “ottobre o novembre al più presto”, scommette Emmott parlando dell'ipotesi di elezioni anticipate. Nessuna riforma, nessuna azione di qualche peso – pur in una crisi che il New Deal moderno non ha fermato – se non la gestione di una Finanziaria che annulla il decennio del New Labour per riportarlo al Labour com'era: tasse ai ricchi finché si può. Certo, c'è sempre la possibilità che salti fuori un candidato disposto a un atto di coraggio – un atto suicida, forse – ma al momento il nome più gettonato è quello di Alan Johnson, che è certo un politico rassicurante, ma sarebbe comunque il secondo premier non eletto in tre anni e pure l'Economist ammette che non è esattamente un'alternativa da augurarsi. I giovani ci sono ancora, il duo Miliband (David e il fratello Ed) e quel James Purnell che s'è dimesso dal dicastero del Lavoro senza neanche avvisare Brown, sfogandosi direttamente con la stampa.
Ma temono di bruciarsi e così preferiscono aspettare che la resa dei conti nel partito avvenga tra le antiche leve, quelle di Brown e quelle di Tony Blair: sono anni che il New Labour è impantanato in questo scontro sotterraneo, almeno che le responsabilità ricadano sui veri colpevoli. A Mandelson non pare vero di poter contare in questo ultimo atto, lui che c'era quando il sogno è cominciato e che con Brown aveva siglato patti – poi violati e poi risanciti – di non belligeranza. Nel frattempo si logora il ruolo di Londra nel mondo, in un momento in cui Berlino e Parigi sono all'attacco geopolitico, verso est e verso il medio oriente. I conservatori che hanno gioco facile a fare ironia hanno già trovato una definizione: il New Labour è diventato un partito “behind the sofa”, nascosto dietro il divano. Per la paura.
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