Il congresso delle ombre

Francesco Cundari

Le elezioni sono finite, dai ballottaggi non dovrebbero arrivare sorprese clamorose e adesso, nel Partito democratico alle soglie del suo primo congresso, la palla passa a Pier Luigi Bersani. E tutti si domandano che cosa farà Massimo D'Alema.

    Le elezioni sono finite, dai ballottaggi non dovrebbero arrivare sorprese clamorose e adesso, nel Partito democratico alle soglie del suo primo congresso, la palla passa a Pier Luigi Bersani. E tutti si domandano che cosa farà Massimo D'Alema.
    All'indomani del voto, una lunga agenzia densa di dichiarazioni pronunciate da numerosi dirigenti del Pd si concludeva così: “Non ha parlato, per ora, Pier Luigi Bersani, l'unico dirigente del Pd ufficialmente candidato alla segreteria in vista del prossimo congresso. E non ha parlato nemmeno Massimo D'Alema”. Secondo Repubblica, D'Alema non ha nessuna intenzione di ritirare il suo appoggio a Bersani, al quale avrebbe anzi da poco confermato solennemente il suo sostegno. Secondo il Corriere della Sera, D'Alema ha mollato Bersani, ma sarebbe ancora incerto tra la tentazione di candidarsi in prima persona alla segreteria e l'occasione di stringere un patto con Franceschini. Un patto che garantirebbe al primo la presidenza del partito e al secondo la rielezione a segretario.
    Ma le variabili, in realtà, sono molte di più.

    Per dirne una, il congresso potrebbe venire rinviato. Franceschini guadagnerebbe così un altro anno di tempo e nessuno ci perderebbe, almeno in teoria. Per dirne un'altra, al congresso potrebbe esserci un terzo candidato. Un terzo candidato vero, s'intende, espressione di quell'area che non si riconosce né in Bersani né in Franceschini. Un'area che resta però piuttosto frammentata, molto difficile da unificare sotto un solo candidato, una sola mozione e una sola squadra. Ragion per cui i “candidati veri”, alla fine, potrebbero essere persino quattro o cinque. Per dirle proprio tutte: il Partito democratico potrebbe non arrivarci, al suo primo congresso. Né in ottobre né mai.
    Nel frattempo, giusto ieri, Ezio Mauro su Repubblica e Romano Prodi sul Corriere della Sera hanno detto chiaramente quello che pensano. Per prima cosa occorre tornare a una coalizione larga, anzi larghissima (e assai più disomogenea dell'Unione, a giudicare dai confini tracciati). E per seconda cosa occorre cambiare il gruppo dirigente del Pd, i famigerati oligarchi responsabili di ogni sconfitta, tutti-quanti-tutti-quanti-tranne-qualcuno, come cantava il poeta. Bisogna cioè archiviare definitivamente la “vocazione maggioritaria” veltroniana, ma anche gli unici che quella linea avevano criticato. Bisogna, in pratica, fare esattamente quello che sosteneva D'Alema, quando il sostenere queste tesi gli valeva l'accusa di voler distruggere il Pd per impadronirsi dei suoi poveri resti socialdemocratici. Niente di nuovo. In fondo è solo l'ultimo esempio di una delle più antiche leggi della sinistra italiana: disgraziati i primi, perché saranno gli ultimi.

    Per Prodi ora sono “necessari e doverosi una serie di passaggi, a cominciare da quello congressuale, che consentano un salto in avanti in termini di rinnovamento politico e di ricambio generazionale”. E a questo proposito quello di Debora Serracchiani, con le sue 144 mila preferenze alla prima candidatura, è “un caso emblematico”, che dimostra “il desiderio di rottura con gli apparati”. Nel suo editoriale, Mauro sembra quasi completare il ragionamento dell'ex premier, contro quelle “due anime” del Pd (gli apparati di Ds e Margherita, evidentemente) che “assistono guardinghe a ogni mossa di Franceschini, lo tengono in equilibrio precario, invece di fondersi si misurano a vicenda quotidianamente”. Stringendosi nella vecchia “foto di famiglia” sempre uguale a se stessa, piuttosto che “lasciare spazio ai giovani”. E ovviamente anche qui il caso emblematico è sempre lo stesso: “Debora Serracchiani, che ha scalato il partito da sola”.

    Il dream team a cui le parole di Mauro e Prodi fanno pensare per il congresso sembrerebbe dunque un inedito ticket tra Dario Franceschini e Debora Serracchiani. L'ex vicesegretario e la giovane scoperta di Walter Veltroni (o per essere più precisi di Walter Verini, suo braccio destro). Si tornerebbe così alla vecchia maggioranza che sosteneva Veltroni – cioè tutti meno dalemiani e ulivisti-prodiani – allargata agli ulivisti-prodiani. Con la trionfatrice della circoscrizione nord-est a garantire il necessario rinnovamento. “Rinnovamento nella continuità”, si sarebbe detto una volta. Sempre ieri, peraltro, lo straordinario successo di preferenze guadagnava alla Serracchiani l'intera prima pagina-copertina dell'Unità.

    Si capisce, insomma, come mai tanti sostengano che D'Alema sia tentato dall'accordo. Ma è pur vero che se Bersani decidesse di andare sino in fondo, come assicura di voler fare, D'Alema non potrà fare altro che sostenerlo. La prima domanda all'unico candidato ufficiale del prossimo congresso del Pd, subito dopo il voto delle europee, l'ha rivolta una crudele Lilli Gruber: “Onorevole Bersani, ci spiega come si fa a perdere sette punti in un anno?”. La risposta non si è fatta attendere, semplice e indiscutibile: “Si fa come abbiamo fatto noi”. Lo stesso giorno, Franceschini aveva parlato di un dato di “tenuta” tutto sommato incoraggiante. L'analisi di Bersani appare leggermente diversa: “Ci si dava per morti, e siamo al mondo, ma se dicessimo che ci va bene così accorceremmo di molto le nostre ambizioni”.

    Tutto sta a capire, a questo punto, quanto Bersani abbia voglia di accorciare le sue, di ambizioni. Da mesi, ormai, non c'è giornalista che non cominci ogni articolo al riguardo con l'elenco delle occasioni in cui Bersani ha finito per ritirare la sua candidatura, come fece sia alle primarie del 2007, sia (di fatto) all'indomani delle dimissioni di Veltroni nel 2008. Ma ai due casi se ne potrebbe aggiungere almeno un terzo, che risale ai tempi dei Ds e del congresso di Pesaro, nel 2001. Anche lì, peraltro, si era all'indomani delle dimissioni di Veltroni (appena eletto sindaco di Roma) e di una bruciante sconfitta elettorale (trionfo di Silvio Berlusconi e minimo storico dei Ds, al 16 per cento). E fino a un attimo prima della presentazione ufficiale, i candidati dell'area riformista al congresso di Pesaro erano due: Piero Fassino e Pier Luigi Bersani. Gli stessi che si sarebbero ritrovati sul palco alla prima iniziativa della mozione Fassino. E a chi gli domandava perché non si fosse candidato, anche allora, Bersani rispondeva con parole ormai consuete: perché eravamo d'accordo, dunque non c'era ragione di dividersi, se non per ambizioni personali.
    “Il problema non sono le persone”, ripete ancora oggi, esattamente come otto anni fa. “Qui bisogna mettere giù ‘il testone' e decidere cosa vogliamo fare, quali risposte vogliamo dare… Di questo non si parla mai. Chi sa cosa propongo io per il partito?”. Una buona domanda, senza dubbio. In compenso, come ha riconosciuto lo stesso Franceschini, è finita la fase della terribile “litigiosità” interna, causa di ogni male. Del resto, basta scorrere le dichiarazioni rilasciate negli ultimi mesi a giornali e agenzie di stampa: tutti i dirigenti del Pd si sono schierati compatti e convinti dietro Repubblica nel lanciare la sfida al centrodestra sui “valori”; dietro Confindustria e Banca d'Italia nel chiedere riforme strutturali; dietro il comitato referendario nel chiedere prima l'election day e poi il Sì al referendum. Da Franceschini a Bersani, da D'Alema a Marini. Tutti uniti, unanimi e all'unisono. Su cosa mai dovrebbero dunque dividersi al congresso, tra neanche tre mesi?

    Questo è il problema che arrovella oggi i democratici. E proprio per questo alcuni vorrebbero un grande accordo come quello che incoronò Veltroni, e se questo non è possibile, un rinvio del congresso sine die, in attesa che l'impossibile divenga possibile; altri pensano che tanto l'accordo quanto il rinvio sarebbero il segnale di un ennesimo, inaccettabile ritorno al passato, agli accordi sottobanco tra i signori delle tessere, all'unanimismo di facciata, alla dittatura degli oligarchi. In entrambi i casi, la logica tradizionale secondo cui il congresso dovrebbe essere la sede democratica in cui dirimere le controversie è completamente rovesciata: i primi, infatti, sostengono che il congresso non si possa fare perché i dirigenti sono divisi; mentre i secondi dicono che si deve fare proprio perché, nella sostanza, sono tutti d'accordo.

    D'accordo, va da sé, sulla linea dell'innovazione e del cambiamento, come ripetono tutti insieme, sempre gli stessi, da anni. E anche questa, in fondo, è un'innovazione significativa nella loro tradizione politica: l'invecchiamento nella discontinuità.
    Esempi recenti dei frutti di questa innovazione non mancano. Alla conferenza stampa sui risultati delle europee – quei risultati che per il Pd hanno segnato la perdita di sette punti secchi in un anno appena, pari a quattro milioni di voti – Franceschini ha detto che il 26 per cento preso oggi dimostra tra l'altro quanto fosse valido il 33 per cento raggiunto un anno fa. Si compie così la facile profezia pronunciata l'agosto dello scorso anno da Walter Veltroni, con parole che tanto avevano colpito Andrea Romano. “Nella conferenza stampa di fine stagione – commentò infatti sulla Stampa – Veltroni ha rievocato con malinconia il ‘perduto entusiasmo dei primi mesi' e ci ha soprattutto informato che d'ora in avanti il Pd dovrà rimpiangere il risultato raggiunto alle ultime e già disastrose elezioni. Il che significa che si prepara ad incassare risultati sempre peggiori”.

    Un tempo, quando i partiti restavano in vita per più di due o tre tornate elettorali, ogni seppur minimo incremento di voti veniva interpretato come dimostrazione del fatto che il partito era sulla giusta linea, nel pieno di un'avanzata magari graduale, ma inarrestabile. Ora accade invece l'esatto contrario: ogni sconfitta, a condizione che sia peggiore della precedente – molto peggiore, possibilmente – è la prova di quanto fosse buona la sconfitta precedente. Purché il successore garantisca un risultato sensibilmente inferiore, non c'è disfatta che possa strappare al leader di turno l'intima certezza di una pronta riabilitazione.
    D'altra parte, anche i suoi critici possono fare altrettanto. Incoronandolo festosamente e seguendone la linea senza fiatare all'inizio, quindi esprimendo il proprio radicale dissenso all'indomani della prima sconfitta, infine convergendo come un sol uomo sul successore designato – designato dal medesimo leader di cui sopra, s'intende – a condizione che assicuri quel minimo di discontinuità che il principio di realtà aveva comunque già imposto al predecessore.

    E poi si ricomincia da capo, fino alla successiva sconfitta, in una serie potenzialmente infinita di discussioni fittizie e innovazioni sempre più innovative da proclamarsi a gran voce al mattino, a cadenza settimanale e sempre tutti in coro, sempre tutti insieme e sempre meno appassionatamente, per ammazzare il tempo da un funerale all'altro. Per poi ritrovarsi tutti lì, ancora una volta, dietro l'ultimo leader buttato al macello, con gli occhi sudati e le mani in tasca, a dire come dice la canzone: “Io sono stato suo padre, purché lo spettacolo non finisca”. Nella storia recente della sinistra italiana, infatti, neanche la più antica e apparentemente inviolabile tra le leggi universali della politica trova ormai alcun riscontro. E ad avere molti padri sono sempre gli sconfitti. Nel Partito democratico si afferma così il primato del leader postumo: con la riabilitazione e poi il ritorno sulla scena di Romano Prodi, seguito dallo stesso Walter Veltroni. E adesso con Franceschini, ma sull'onda di un processo ancora più radicale: la riabilitazione preventiva. Il leader sconfitto, già rimpianto e quindi riabilitato prima ancora che abbia passato la mano. E così si torna a D'Alema. Del resto, si dice sia stato proprio lui a fermare la corsa di Bersani, sia nel 2007 sia nel 2008 (e chissà che un giorno non si scopra che fu sempre lui a fermarlo, anche nel 2001).

    Resta il fatto, però, che questa volta davvero tutto dipende da Bersani. Se ricomincerà a parlare del “bene della ditta” e di quanto gli piaccia “giocare in squadra”, si può scommettere che il congresso si ridurrà a una semplice formalità, sempre ammesso che si faccia. Ma certo è difficile immaginarlo mentre si fa avanti solo contro tutti, costringendo a seguirlo un recalcitrante D'Alema, per vedersi poi affibbiare pure l'etichetta del dalemiano, docile marionetta nelle sue mani. Difficile immaginarlo mentre decide di sfidare non solo Franceschini, i popolari, i fassiniani, ma pure Repubblica, lui sempre così attento a non carezzare il lupo per il verso sbagliato, lui che ha sempre preferito tenersi basso, restare nel gruppo, e che in fondo non ha voluto sfidare mai nessuno. Per anni. E anni. E anni.

    Non c'è da stupirsi se poi si sfiorò quasi la rissa, la sera in cui Veltroni si dimise, quando incrociando Bersani in corridoio gli disse: “E' stata tutta colpa tua”. E si capisce pertanto anche la reazione di ieri, all'accusa di avere “rotto la tregua” chiesta da Franceschini dopo le europee con quella semplice risposta alla Gruber. “Mi hanno fatto una domanda e ho risposto. Che cosa dovevo dire? Dire che siamo andati bene bene mi pare faticoso”, ha replicato. E sono pur sempre dieci anni che si fa indietro per “non danneggiare la ditta” e per “non alimentare personalismi”, accorciando le sue ambizioni fino a renderle praticamente invisibili. Si capisce che alla lunga, anche uno così, a un certo punto perda la pazienza. Eppure tutti continuano a pensare che ogni cosa sia ancora nelle mani di D'Alema. Come sempre, si dice. E già se lo immaginano mentre convoca Bersani nella sua fondazione e gli dice che bisogna ripetere la scena un'altra volta, riportare indietro il nastro, incoronare un'altra volta Franceschini. E cerca di sorridergli, se puoi, mi raccomando. Non sarà facile, ma sai, si muore un po' per poter vivere.