Ci sono cose che un mercante di sogni non deve mai fare
La crepa nata dall'addio di Kaká vista da un preoccupatissimo milanista
Il Cav. non è più quello di un tempo, è vero, qualcosa è cambiato. Non perché abbia toppato mettendo da solo l'asticella delle elezioni europee così alta che ragionevolmente non poteva che passarci sotto. Non perché si sia lasciato cogliere impreparato dagli amici siciliani che hanno dato fuori di testa a qualche giorno dal voto. E nemmeno perché abbia qualche problema con il femminino regale, in senso ampio.
Il Cav. non è più quello di un tempo, è vero, qualcosa è cambiato. Non perché abbia toppato mettendo da solo l'asticella delle elezioni europee così alta che ragionevolmente non poteva che passarci sotto. Non perché si sia lasciato cogliere impreparato dagli amici siciliani che hanno dato fuori di testa a qualche giorno dal voto. E nemmeno perché abbia qualche problema con il femminino regale, in senso ampio. In fondo a tutto c'è rimedio, gli elettori vanno e vengono e gli italiani sono cattolici, non negano mai il perdono al peccatore. Quello che è cambiato non riguarda la politica né gli amici né la famiglia né le donne: riguarda il sogno, componente centrale del berlusconismo e suo archetipo. Ci sono cose che un mercante di sogni non farebbe mai e che Berlusconi invece ha fatto per la prima volta: vendere. Niente di meno che Ricardo Izecson dos Santos Leite, il brasiliano bianco e di buona famiglia che i tifosi del Milan per sette anni hanno messo in musica, “Qua, qua siamo venuti fin qua per vedere segnare Kaká”.
Dire che i bilanci di una società sono importanti è fin troppo semplice. C'è modo e modo di ripianare un deficit. Vendere i gioielli di famiglia è il più pigro, suona come resa e rassegnazione e non è detto nemmeno che funzioni. Il presidente onorario del Milan è fra gli uomini più ricchi del mondo, potrebbe quindi permettersi di non pensare solo ai soldi, al profitto immediato, alla redditività a breve termine: è questa la libertà a cui il venditore di sogni non può rinunciare. Berlusconi che inquadra la sua passione tra l'attivo e il passivo di un qualsiasi bilancio è come David O'Selznick che vende i diritti di Via col vento, un tycoon in declino, allo sbando.
Nessuno può saperlo meglio di chi ha costruito l'immagine di uomo vincente e fortunato, di predestinato insomma, proprio sul calcio. Non è vero che tutti i successi sono uguali, tutti toccano le stesse corde o suscitano le stesse emozioni. Essere l'imprenditore immobiliare che si inventa Milano 1 e 2 è meritorio ma non seduce oltre la cerchia dei milanesi informati. Essere il primo a fare tv commerciale in Europa è ancora più meritorio ma ancora non fa sognare l'universo mondo: non ho mai sentito di nessuno che di fronte a un nuovo programma abbia esclamato “che meraviglia”. Di fronte al Milan invece si. La bellezza che ha portato la società al top dei club veniva anche dal coraggio e dalla lungimiranza di un presidente che mai avrebbe venduto nulla e dalla sorpresa che il gioco suscitava. Quel Milan era trasversale quindi di tutti.
La vigilia dell'andata di semifinale della Coppa Campioni del 1989, il Milan doveva incontrare il Real. Stavo in Francia, non avevo mai visto giocare il Milan di Sacchi, i giornalisti erano contro il Milan e si divertivano a punzecchiarmi come il solito italiano furbastro adepto del catenaccio. Per consolarmi me ne andai in una bella pizzeria sul boulevard Magenta, Mimmo il proprietario era nato a Napoli e interista di fede. Mi guarda, capisce tutto e mi fa “ma tu si pazze, il Milan io l'agge viste, è di un altro pianeta, Sacchi e Berlusconi so' geni, ce farebbero segnare nu goal pure a te”. Andò come aveva detto, spagnoli a pezzi, francesi ammutoliti e noi immigrati italici commossi. Quel Cav. lì non c'è più, questo ci dice la decisione di vendere un calciatore. Per il visionario che ha saputo coltivare se stesso e la sua immagine dentro una volontà di successo comunque collettiva, sembra cominciato ormai il declino della passione.
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