Rock'n rais
La camicia rosa con stampate le foto di Nasser e Mandela sfoggiata durante un precedente incontro, in Libia, con Berlusconi meriterebbe di stare al MoMa. Fedele al personaggio ma in preda a un continuo cambio degli abiti di scena, Gheddafi ha trasformato l'iperbole kitsch del suo abbigliamento in un messaggio vivente.
La camicia rosa con stampate le foto di Nasser e Mandela sfoggiata durante un precedente incontro, in Libia, con Berlusconi meriterebbe di stare al MoMa. Fedele al personaggio ma in preda a un continuo cambio degli abiti di scena, Gheddafi ha trasformato l'iperbole kitsch del suo abbigliamento in un messaggio vivente. Ha le rughe scavate da una vita spericolata, i capelli tinti e il cerone spalmato come una vecchia rockstar che non vuole mollare la scena. Ma Gheddafi non è un fenomeno di folklore. E' politico scafato che ha trasformato il suo corpo in un fenomeno di comunicazione pop. E' andato molto oltre la dimensione tristanzuola e impiegatizia dei tanti dittatori in divisa, caricature postcoloniali come Amin Dada o Fidel Castro. E' un'esplosione barocca, ha la dimensione global-trash delle pop star. Il suo africanismo posticcio lo fa sembrare uno Youssou N'Dour in versione tamarra, qualcosa col sapore meticcio del rock maghrebino. Un Iggy Pop del deserto, un Ozzy Osbourne versione raï.
Milano. “A portrait of el-Qaddafi as a rockstar”. Un ritratto del Colonnello come fosse una rockstar, questo ci vorrebbe; dove el-Qaddafi sta per Gheddafi in una delle trentasette grafie ufficiali o taroccate ammesse nel culto della personalità del Fratello Guida della rivoluzione. Quella esatta sarebbe Mu‘ammar Abu Minyar al-Qadhafi, ma la Grande Jamahiriyya è più che altro uno scioglilingua, un neverending show, come il “prisencolinensinainciusol” di Celentano. Ecco, Celentano: se Gheddafi ha un parente in Italia, è il Molleggiato. Con buona pace dei radicali che gli preferiscono quel noioso santone da conferenza del Dalai Lama – e infatti nessuno lo vuol ricevere, mentre per lui c'è la fila come per Obama – Gheddafi è una vecchia rockstar che tiene ancora il palcoscenico. Malmessa e un po' patetica, ma ancora trasgressiva quel tanto che basta da rubare la scena a qualsiasi azzimato capo di stato che gli capiti a tiro. Un personaggio che se da un lato appartiene a buon diritto ai disastri della storia politica mondiale, dall'altro è entrato da tempo in una dimensione diversa. Gheddafi è un problema d'immagine. Dunque è assai attuale. Anzi, è un precursore.
Ha attraversato vari e variopinti periodi, come un Picasso arabo. Il kaki militare simbolo della lotta anticoloniale, come nella storica foto in divisa da colonnello tra Sadat e Assad, a Bengasi. Il trench da malmesso studente fuorisede, in una stanza piena di libri. Fino alle camicie a colori stampati che stanno alla divisa mimetica come i maglioncini di Marchionne alla cravatta, dicono la vicinanza del leader al popolo. Le camicie batik, retaggio africano, le aveva lanciate Mandela. Ma Gheddafi ne ha dato un'interpretazione pop e transpolitica, trasformandole in un tatuaggio vivente. La camicia rosa con le foto di Nasser, Hailé Selassié e Mandela che aveva la volta che incontrò Berlusconi sarebbe da esporre al MoMa in permanente. A volte ha le scarpe da ginnastica e la tuta, altre il cappello di pecora da pastore della steppa. Le sgargianti tuniche africane e i mantelli beduini sono venuti con la svolta dal panarabismo al panafricanismo. Ma come ogni vera star del rock, ha una passione per i copricapi – africani, beduini, berberi – e per gli occhiali da sole, assurdi come nemmeno Lapo Elkann li ha.
Ma non è solo folklore terzomondista, è di più. Se non altro perché lui, a differenza di tanti colleghi, è perfettamente cosciente della sua messinscena e padrone dei suoi registri comunicativi. Gheddafi è diverso, è andato molto oltre la dimensione tristanzuola da impiegatucci del potere dei tanti dittatori in divisa, caricature postcoloniali come Amin Dada o Fidel Castro. Castro sì che è invecchiato male, si fa vedere con la tuta e la barbetta tagliata dall'infermiera come un pensionato all'ospizio. Del resto, mica tutti hanno il culo di farsi ammazzare sulla Sierra intanto che passa di lì uno a farti un paio di scatti immortali. Il Che, quello sì che aveva stile. E anche Gheddafi, del resto. Lui è un'esplosione barocca, cosmopolita, accumulativa. E' da tempo entrato in una dimensione global-trash delle pop star, ha fatto del kitsch terzomondista-panafricano-panarabo una cifra iperbolica. Qualcosa che oltrepassa l'Africa come i container con le merci da due soldi cinesi. Ha una dimensione african-pop che lo avvicina a uno Youssou N'Dour in versione tamarra, qualcosa che ha il sapore meticcio del rock maghrebino. Un Iggy Pop del deserto. Un Ozzy Osbourne versione raï. Comunicazione per tempi primitivi, ritualità da grandi masse. Prima scopiazzava Nasser, poi ha scoperto che è meglio trasformarsi in un'icona pacifista come gli U2. In primo piano sembra Keith Richards, le stesse rughe scavate con lo scalpello di una vita da canaglia, vecchi malvissuti fortunati. Meriterebbe anche lui di essere fotografato da Annie Leibovitz.
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