Un po' di Jarry
Pensavate che fosse tutto oro quello che luccica, che quelle mostrine, gli alamari, le spalline, le cordette e le cordine del colonnello Muammar Gheddafi, avessero un qualche senso di realtà? Errore.
Pensavate che fosse tutto oro quello che luccica, che quelle mostrine, gli alamari, le spalline, le cordette e le cordine del colonnello Muammar Gheddafi, avessero un qualche senso di realtà? Errore. Bisogna conoscere l'arte della trasfigurazione, avere qualche esperienza del teatro dell'assurdo, delle anticipazioni surrealiste di un genio come Alfred Jarry, l'inventore di Ubu Roi, per capire che anche il dittatore libico si diverte a giocare col sarcasmo, con l'ironia, con la parodia; anche lui pratica disinvoltamente l'arte del rovesciamento, stilema che “si porta molto” nel decadente mondo contemporaneo da quando l'arte ha preso il nome di Warhol e l'arte della politica, con la benedizione dei situazionisti, è diventata tutto quanto fa spettacolo. Con i suoi occhi da vipera, l'espressione astratta di una statua kitsch, i capricci da capo beduino e l'inflessibilità di un despota, il colonnello Gheddafi ha piantato la sua tenda nel più antico parco di Roma, trasformando la Città eterna in un deserto libico, ha esibito le sue viscere tormentate, mostrando se stesso nei panni del Leone del deserto incatenato dai colonialisti invasori. Come Ubu Roi, è una maschera grottesca del potere, che però non serve a denunciarne il ridicolo, ma a renderlo plausibile.
“Ubuesque” direbbero i cultori del teatro dell'assurdo, pensando alla provocazione di Alfred Jarry, “Ubu Roi”, la pièce presurrealista del 1896, che esagera la farsa sino al sarcasmo, parodia la forza, mette in scena la crudeltà del potere nei modi dell'assurdo per trasfigurarne la realtà coi colori del grottesco. E infatti, bisognava vederlo il colonnello Gheddafi scendere le scalette dell'aereo militare con la sua divisa caricaturale, grondante scherno, kitsch, irrisione verso la potenza ospitante, ma anche una forma di crudeltà gioiosa e matta serietà… Annunciato da quel cappello ben calcato sulle ribelli chiome di un artificioso corvino, la visiera lussureggiante di simboli di gloria militare e civile – l'aquila indomita, le spade incrociate, l'intreccio operoso del serto di olivo – il dittatore libico si è fatto precedere da un vortice di spalline dorate, di borchie, di alamari, di cordini e cordicelle, coi loro aurei filamenti pendenti. Protetto dal riverbero di grosse lenti specchiate come parafanghi cromati, è subito apparso nel riflesso della luce meridiana come un prodigio surrealista: ultima incarnazione del grottesco, tanto spettacolare era l'omaggio alla pop art attraverso la citazione dello stile indumentario adottato dai Beatles nel “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band”.
Forte del suo carisma pop, del gusto assurdo e traslucido per l'inversione che esalta il senso del ridicolo insito nel potere, il colonnello è entrato in scena con funambolica grazia teatrale. Ha subito mostrato i pettorali rigonfi, tappezzati a sinistra da un ventina di cm2 di rettangolini variopinti, simbolo della sua altissima dignità guerriera; a destra da una foto storica del “leone del deserto”, Omar al Mukhtar, il guerrigliero che per vent'anni lottò contro l'occupazione coloniale italiana, còlto al momento della sua cattura nel 1931, mentre si avvia al patibolo in catene circondato da bersaglieri e gerarchi fascisti.
Hai voglia a ostentare sull'anulare sinistro il simbolo stesso dell'eroe nazionale libico, un kitcschissimo anello a forma di testa leonina con rubino incastonato nelle fauci. Hai voglia a esibire come un trofeo tra il codazzo di amazzoni, le soldatesse-guardie del corpo in basco rosso e divisa militare, lo stesso nipote del mitico al Mukhtar, ottantenne in jallaba, ma costretto su sedia a rotelle. Per i conoscitori dell' “ubuesque” di Alfred Jarry come Daria Galateria, trattasi di rovesciamento bello e buono, stilema che oggi si porta molto. “Gheddafi usa l'esagerazione, l'eccesso, il comico per mascherare se stesso. Come Jarry, che fu un antesignano nella denuncia sarcastica del ridicolo del potere, il dittatore libico ricorre a una copertura, usa una maschera parodistica del potere, per alleggerirne la pesantezza e renderlo plausibile”.
Così, al posto della “Gidouille” di Père Ubu, e cioè il gigantesco ventre rabelesiano con cui Jarry metteva in scena il personaggio del folle cospiratore che, una volta spodestato il re Venceslao, decide di massacrare tutti, seppellendo i nobili in uno scantinato, costringendo i magistrati a vivere di elemosina, e mettendosi lui stesso a raccogliere le imposte di villaggio in villaggio per farsi acclamare dal popolo, salvo massacrare chiunque resista alle sue riforme, il dittatore libico esibisce una foto dell'epoca coloniale. “Stiamo attenti però” spiega Daria Galateria “quella foto corrisponde al suo ventre, ma è anche un bersaglio rovesciato verso i suoi ospiti italiani: usando quell'immagine Gheddafi infatti butta fuori le sue viscere sarcastiche e velenose, mostra se stesso in catene, come il guerrigliero perseguitato e condannato a morte dal paese crudele al quale oggi è in visita.
E' un rovesciamento di tutte le mostrine variopinte che ostenta sull'altro lato della divisa e che fanno pensare a un'opera di Alighiero Boetti, il quale però andava a farsi filare i tessuti con cui componeva i suoi quadri a quadretti dalle donne afghane”. Niente di strano, perciò, se il colonello vuol fare il leone del deserto e poi si lascia riprendere in catene dagli italiani brava gente… Anche le amazzoni, la tenda a Villa Pamphili, la sella di cammello regalata a Giorgio Napolitano sono altrettante forme di inversione surrealista, per trasformare in gioco l'essenza spietata del potere. “Nessuno oggi dice più che il re è nudo” spiega Daria Galateria. “Ma tutti dicono che il re è ridicolo. La differenza, con Gheddafi, è che ormai è il potere stesso non solo a dirlo, ma a metterlo in scena”.
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