Tra Twitter, il bazaar e lo squalo
La sfida ad Ahmadinejad andava in scena a piazza Azadi mentre alla protesta pubblica convocata dal passaparola via web si univa una battaglia feroce ma più privata. La reazione al responso delle urne è la sintesi potente di una frustrazione che cova da decenni sotto le ceneri della Rivoluzione, ma anche una resa dei conti tra due volti del regime: Hashemi Rafsanjani e Ali Khamenei.
La sfida ad Ahmadinejad andava in scena a piazza Azadi mentre alla protesta pubblica convocata dal passaparola via web si univa una battaglia feroce ma più privata. La reazione al responso delle urne è la sintesi potente di una frustrazione che cova da decenni sotto le ceneri della Rivoluzione, ma anche una resa dei conti tra due volti del regime: Hashemi Rafsanjani e Ali Khamenei. Se dietro alla “dolce vittoria” di Ahmadinejad c'è la mano di Khamenei, dietro all'insubordinazione di Mir Hossein Moussavi c'è la regia di Rafsanjani. Sono i suoi emissari che agitano gli umori del bazaar, diffondono la protesta del popolo verde aiutandolo ad aggirare la censura, ed è sempre Rafsanjani a spendersi tra febbrili consulti con gli ayatollah di Qom e i consiglieri all'interno del Consiglio degli esperti.
Se l'obiettivo visibile è quello di tornare alle urne e liberarsi di Ahmadinejad, sottotraccia c'è un disegno ben più ambizioso: eliminare l'ayatollah Khamenei. Nel 2005, alla vigilia delle elezioni, il figlio di Hashemi Rafsanjani “confidò” a un reporter americano: “Se vince mio padre cambierà la Costituzione e limiterà i poteri di Khamenei, trasformando il ruolo della Guida Suprema in una carica di rappresentanza simile a quella della regina d'Inghilterra”. Quattro anni fa il “kuseh”, lo squalo, come viene soprannominato Rafsanjani, era annoverato come il volto pragmatico del regime, colui che avrebbe importato in Iran il modello cinese e riallacciato i fili della comunicazione con gli Stati Uniti. Poi è arrivato il colpo di reni dell'ayatollah Khamenei: Rafsanjani ha subito la sconfitta più pesante della sua carriera e i pasdaran hanno scalato le vette del potere insieme con Ahmadinejad. Ma Rafsanjani non si è arreso. Consapevole di esercitare un ascendente politico-economico all'interno dell'establishment, ha consolidato il suo potere nelle istituzioni presiedendo il Consiglio per il discernimento dell'interesse del regime e scalando l'Assemblea degli esperti. Forte di queste cariche, Rafsanjani sta provando a riequilibrare i rapporti di forza tra i turbanti e i fucili. Per trasformare il sistema, ha provato a trasformare la sua immagine. Si è calato nei panni del teologo riformatore. E a dispetto dei critici che faticano a immaginare il re degli affari (e del malaffare) della Repubblica islamica come un novello Lutero, i consiglieri raccontano che la sua è una battaglia seria per “portare lo sciismo nell'era moderna”.
La prima occasione per esibirsi in questa veste si è presentata nel giugno 2008 durante l'incontro dell'Associazione dei professori dei seminari di Qom. Nel corso della riunione lo squalo ha ipotizzato la creazione di un nuovo capitolo di dottrina religiosa denominata “Teologia di stato” o “Teologia politica”. Un gruppo di religiosi di alto rango – ha detto – potrebbe stabilire le linee guida entro le quali sviluppare le politiche dello stato. Rafsanjani ha anche invocato la revisione dei curricula nei seminari e sollecitato maggiore controllo nella formulazione degli editti religiosi “che – ha spiegato – dovrebbero essere ad appannaggio di specialisti”.
Alla fine di dicembre durante una conferenza sullo sciismo all'Università di Teheran è arrivata un'altra proposta: la creazione di un “Consiglio della Fatwa” composto da grandi ayatollah. Rafsanjani ha illustrato le virtù dello sciismo sottolineandone la natura innovativa, la capacità di evolvere attraverso l'“ijtihad”, l'interpretazione. “Esiste un consenso generalizzato tra i ‘religiosi modernizzatori' – ha commentato un suo collaboratore – che ci troviamo a un punto di svolta ed è necessario essere teologicamente al passo con i tempi, altrimenti corriamo il rischio di perdere fedeli, a vantaggio della secolarizzazione che attraversa la società”. Secondo il settimanale Shahrvand Emruz, le posizioni di Rafsanjani riguardo all'“interpretazione innovativa” e al “Consiglio della fatwa” sono motivate dall'esigenza di “razionalizzare il rapporto tra il seminario e la società” e dal bisogno di “aggiornare alcuni aspetti antiquati che rimontano al medio evo, come per esempio il rifiuto di alcuni ayatollah di usare il telescopio e la confusione derivante per stabilire l'inizio dell'eid ul fitr”.
Ma sottotraccia è evidente che una riforma dottrinale indebolirebbe i falchi e l'ayatollah Khamenei. Lo stesso Shahrvand Emruz ha pubblicato una serie di dichiarazioni in cui Rafsanjani critica il Consiglio dei guardiani e sostiene che “i sistemi democratici sono generalmente preferibili agli stati islamici dittatoriali”. Lo squalo torna a flirtare con l'occidente dando l'impressione che un'evoluzione del regime khomeinista sia possibile, prefigura un Iran ancora clericale ma addomesticato nei suoi eccessi e dunque più presentabile agli occhi degli investitori internazionali. Ma il suo è anche un tentativo di riaffermare gli antichi rapporti di forza tra clero e pasdaran. L'ansia di rinnovamento teologico dell'inquieta nomenklatura khomeinista è un effetto collaterale dell'alleanza tra l'ayatollah Khamenei e Ahmadinejad. “I tradizionalisti non staranno ad aspettare di essere fatti fuori”, ha chiarito il cognato di Rafsanjani, Hussein Marashi, intervistato dal quotidiano Kargozaran.
Il “lato teologico” di Rafsanjani non è passato inosservato. Gholam Reza Elham, portavoce di Ahmadinejad, ha qualificato le proposte come “un tentativo per indebolire la Guida Suprema”. Il giornale dei falchi Parto è stato altrettanto negativo, ma un rappresentante dell'autorevole Istituto di ricerca imam Khomeini ha definito “sagge” le sue idee in un'intervista al quotidiano Etemaad. Nessun elogio è però stato più gradito di quello del Grande ayatollah Ali Sistani. Secondo Ayandenews, nel corso di un incontro con Rafsanjani Sistani ha manifestato apprezzamento per gli scritti del “kuseh” e auspicato che la sua visione non venga emarginata nell'Iran di oggi, un commento che ai più è apparso come una critica velata all'Amministrazione Ahmadinejad. L'avallo del primus inter pares della comunità sciita non soltanto nobilita le posizioni di Rafsanjani, ma rafforza il suo status agli occhi dell'establishment clericale. Forte di quella che i suoi estimatori presentano, fin troppo ambiziosamente, come un'investitura il Richelieu della nomenklatura iraniana è tornato a lanciare sassi nello stagno come la prospettiva di sostituire la Guida Suprema con un consiglio costituito da 3-5 leader religiosi. L'ipotesi tutt'altro che inedita – la possibilità fu avanzata dopo la morte di Khomeini e lo stesso Khamenei per un momento la caldeggiò – comporterebbe una riforma costituzionale (la legge infatti prevede che sia un individuo a ricoprire l'incarico).
Ma non sarà certo la Costituzione a fermare Rafsanjani, del resto è stato proprio un aggiustamento costituzionale a consentire a Khamenei di diventare il leader supremo della Repubblica islamica anche senza il titolo di ayatollah. Per i protagonisti della scena politica iraniana il fantapolitico valzer delle possibilità intorno alla successione a Khamenei ruota intorno a sei nomi. I riformisti caldeggiano un triumvirato formato da Rafsanjani, Mohammed Khatami e Mehdi Karroubi, i falchi puntano sugli ayatollah Mesbah Yazdi, Mahmoud Hashemi Shahroudi e Ahmad Jannati.
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