Mentore sapendo di smentire

Giuliano Ferrara

Caro Manconi, io non esalto alcuno, né mi esalto, cerco bensì di spiegare con qualche ironia e quando mi riesca anche con spirito beffardo, e di spiegare prima di tutto a me stesso, quel fenomeno prodigioso che è Silvio Berlusconi, da molti anni sconosciuto e onnipresente protagonista della scena pubblica italiana e internazionale.

    Dal Foglio del 12 giugno 2009

    Al direttore - Sarebbe davvero sciocco archiviare sotto il genere letterario di gossip l'intero dibattito pubblico sviluppatosi in queste settimane intorno alla categoria di “illibatezza della minorenne”. O sottrarsi a quel dibattito quasi fosse un tema così futile da risultare degradante o destinato a funzionare come un'ulteriore arma di “distrazione di massa”. O, dopo il risultato elettorale, come un semplice ma insidiosissimo errore di percorso di Silvio Berlusconi. Le cose non stanno affatto così. Dietro tutta questa vicenda, emergono almeno due importanti questioni di etica, che vale la pena approfondire. La prima riassumibile in un interrogativo: Silvio Berlusconi avrebbe potuto partecipare, come ha fatto, da trionfatore morale al Family day di San Giovanni (12 maggio 2007), se questo si fosse svolto, poniamo, tra quindici giorni? Insomma esiste, deve esistere, una qualche apprezzabile affinità (se non coerenza) tra stile di vita personale e messaggio pubblico?

    Contrariamente a quanto si crede, la risposta della Chiesa cattolica è sempre stata negativa: no, non è lo stile di vita, i comportamenti privati, le relazioni domestiche che qualificano il “buon cristiano” impegnato in politica. Sono solo ed esclusivamente le sue “opere”: in altre parole,  e in estrema sintesi, le leggi che produce. Sotto questo profilo, resta decisiva una intervista di Camillo Ruini risalente ormai a un decennio fa: in quella circostanza, fu nettissima la distinzione tra attività politica e legislativa e opzioni private, tracciata dall'allora presidente della Cei: e fu altrettanto chiara l'indicazione di come fosse la prima a qualificare l'identità cristiana dell'uomo pubblico. Non stupisce: per la Chiesa l'uomo è naturaliter peccatore e, dunque, la sua fallibilità (la “debolezza della carne”) è un dato storico e teologico che si mette nel conto e che va affrontato e risolto con una adeguata vita sacramentale: in questo caso, col ricorso a quel sacramento della confessione che è parte integrante dell'esperienza del cristiano. Questo, nell'ambito della comunità ecclesiale. Ma in quello della sfera pubblica, il cardinale Bagnasco e lo stesso Silvio Berlusconi e Giuliano Ferrara hanno sottovalutato, probabilmente, un dato di realtà. Vale la pena qui citare Joseph Ratzinger che, appena pochi giorni fa, ha stigmatizzato le “immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l'uomo e la donna”. Ecco, è a questo punto che interviene una contraddizione non eludibile: la “spettacolarizzazione” (voluta prima che subita) ha reso inservibile il ricorso a quella categoria fondamentale della vita pubblica che è l'ipocrisia. In altri termini, è proprio vero – come recita un detto abusato ma felicissimo – che l'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù e la “dissimulazione onesta” è, oltre che il segno della consapevolezza del “male” che si commette, il riconoscimento dell'accettazione dell'ordine (morale) costituito, delle sue regole condivise, dei suoi limiti accettati (anche quando violati nei fatti). Dunque, uno strumento di coesione sociale. Ma se quello strumento si rivela traballante perché lo scarto tra le dichiarazioni pubbliche di partecipazione a quell'ordine (celebrato, per esempio, dal Family day) e le violazioni private dello stesso risulta troppo ampio, quella dissimulazione onesta non regge più. L'ipocrisia, qui intesa come virtù pubblica, ha bisogno di senso della misura, eleganza del tratto ed equilibrio nella postura. L'ipocrisia, in altre parole, non è quella robetta là che credono i bigotti di destra e di sinistra: è, piuttosto, una specifica narrazione morale. Che esige una sua peculiare sincerità: uno schietto e aperto proporsi nella propria complessità e contraddittorietà e nella propria dichiarata ambiguità.

    In caso contrario, risulta – fatalmente – niente più che una sfacciata e mediocre improntitudine. Che è altra cosa. Certo, è probabile che non sia stata questa la ragione principale del mancato successo elettorale di  Silvio Berlusconi: ma è la scintillante rappresentazione ideologico-morale da lui realizzata che ha perso una quota non insignificante del suo fascino, in quella sequenza imbarazzante e imbarazzata di reticenze, bugiette, menzognucce, vereconde ammissioni e fiere negazioni. Insomma, “mento sapendo di smentire” (Dario Vergassola). C'è, poi, un ulteriore motivo di riflessione che Ferrara (il Foglio del 1 giugno scorso) afferra ma che, a mio avviso, non riesce a controllare. E che costituisce la seconda questione etica che emerge da questo affaire. Ferrara esalta il comportamento del premier, come manifestazione sublime del carattere nazionale, dell'antropologia borghese, dell'identità psicologica e culturale propria del vitalismo imprenditoriale e creativo, del familismo amorale e dello spirito di clan come strumento di integrazione e di ascesa sociale. Pertanto, Ferrara vede in Berlusconi innanzitutto una attitudine licenziosa e irriverente, un tratto trasgressivo e dinamico, un elemento caratteriale proprio di una natura mercuriale e satirista, giocosa e femminile, libertaria e ribelle. Contrappone tutto ciò, e la cultura che lo alimenta, al “moralismo machofobico di certi ambienti cattolici” e a “tutta quella bella gente dell'Espresso e dintorni, questi giornalisti laici bigami, trigami o in quadricromia”; e soprattutto lo contrappone a quella “sociologia comprendente” che si muove “intorno alle famiglie superallargate, scisse, sghembe, single o di altro disordine”, per appunto “comprenderle” e riconoscere loro diritti.

    Qui l'ossessione ideologica di Ferrara finisce col giocargli un brutto scherzo. Se fosse vero, quanto il direttore del Foglio scrive, saremmo di fronte, con Berlusconi, a una figura di moderno libertino, gaudente e goloso, ironico e autoironico, umanista e “ripopolatore del mondo”.  Ma se fosse davvero questa la cultura incarnata da Berlusconi, l'esito “politico” sarebbe assai diverso. Il libertino non è, infatti, quell'esemplare di doppiezza bigotta e tartufesca che una certa narrativa nazionale ha voluto rappresentare nella galleria dei tipi italiani. Il libertino autentico ha due tratti che sembrano sfuggire completamente a Ferrara e che non sembrano rientrare in alcun modo nella raffigurazione che egli stesso fa del suo Silvio Berlusconi. Il primo tratto è una sorta di fondo tragico che conduce al cinismo, inteso non come sguardo opaco e privo di riferimenti morali, bensì come coscienza drammatica dell'inutilità degli umani sforzi e della loro sostanziale vanità. Il secondo tratto è rappresentato proprio da quella “capacità di comprendere” che Ferrara così tanto detesta. Per buttarla in politica (e me ne scuso), il libertino non chiede per sé, faccio per dire, il riconoscimento delle “coppie di fatto”: ma proprio la sua idea del mondo, e la coscienza della sofferenza che lo affligge, lo induce a guardare con favore (non dico ad adoperarsi perché avvenga) l'istituzionalizzazione delle unioni civili. “Certo, le circostanze non sono favorevoli. E quando mai?”: come canta Giovanni Lindo Ferretti, da me (vanamente) sottratto a quei reazionari del Foglio.

    Luigi Manconi


    Caro Manconi, io non esalto alcuno, né mi esalto, cerco bensì di spiegare con qualche ironia e quando mi riesca anche con spirito beffardo, e di spiegare prima di tutto a me stesso, quel fenomeno prodigioso che è Silvio Berlusconi, da molti anni sconosciuto e onnipresente protagonista della scena pubblica italiana e internazionale. Non ho mai scritto che è un libertino. Ho detto al contrario che non è un dongiovanni ma un vendicatore di torti paragonabile alla statua del Cumenda o addirittura un Leporello, gran carattere che schiaffeggia la classe dei signori dell'establishment con le sue facezie e con le sue geniali scurrilità. La grande virtù di Berlusconi, lo sappiamo tutti, o dovremmo saperlo, è una perigliosa, lunga, affannata e ilare fuga dal tragico. Figuriamoci il libertinismo, con il suo contorno di sadismo, violenza, trasgressione nel segno dell'odio verso Dio.

    Voi bacchettoni di sinistra, che mi avete sempre fatto la morale perché non accetto di trasformare i desideri particolari di ogni specie in diritti, a scapito di antiche e onorate istituzioni come la maternità, il matrimonio e altre ancora, non riuscite a capire che il Family day, da me sempre ricordato come Dies familiae, non era una riunione di moralisti bensì una manifestazione politica laica, appoggiata dal clero cattolico che aveva combattuto con noi laici dissenzienti dall'ortodossia ipersecolarista le buone battaglie contro una legislazione zapaterista e contro la pretesa di fare degli embrioni umani carne di porco per il diritto di aver figli (anche piuttosto sani perché scelti nel parco buoi dell'eugenetica). Berlusconi fu trionfatore, e lo sarebbe anche domani, perché diede una mano, una manina incerta ma vistosamente utile, a vincere quelle due battaglie. Per il resto, non credo di dover ricordare a voi, che avete condiviso la sua impostazione sotto elezioni, quanto mi abbia fatto arrabbiare la dichiarazione congiunta Berlusconi-Veltroni dell'anarchia etica come sostrato del conflitto civile che esclude le questioni che contano dai confronti elettorali (giocati sull'Alitalia invece che sulla tragedia della manipolazione della vita umana). Due fiacchi agnostici, all'occasione, non due libertini.

    Manconi vuole abbellire lo spregevole assalto agli stili di vita di un uomo pubblico, perché ha un certo senso estetico nonostante di mestiere faccia il sociologo, e all'uopo fa l'elogio dell'ipocrisia. Certo Berlusconi dovrebbe darsi una calmata ed essere un poco più riservato ed ipocrita, ma senza esagerare, altrimenti assomiglierebbe pericolosamente a Franceschini e a tutti quei cattolici mediocri che sostituiscono il senso del peccato con l'educazione civica, e non è questa la sua natura, aggiungo per fortuna. Spero che su questo, ma ne dubito, sia d'accordo anche Manconi.

    Comunque c'è James Hillman, junghiano e sociologo o antropologo a suo modo, che ha capito tutto da prima. Ne Il codice dell'anima, appena riedito utilmente da Adelphi in edizione economica, c'è scritto tutto quel che si deve sapere su Casoria, a parte i dettagli inutili riferiti dagli scrutatori di buchi della serratura. Andate al V capitolo, e già il titolo dice tutto: Esse est percipi. Come fu che alcuni grandi, compresi un Washington e un Roosevelt, scoprirono il geniale soldato, il grande politico, ma anche ad altri capitò di selezionare l'eccelso torero, la stella della letteratura, l'asso di baseball? Attraverso quella delicata cosa che è il patronage, la vocazione a denudare corpi e anime e a percepire negli altri una dote e a farla vivere (il risvolto è il destino degli altri di vivere attraverso una percezione che li fa essere). Casi, alla fine, di casting azzeccato (sebbene pretelevisivo, con un risvolto umanistico, diciamo, più evidente): Hamilton delfino di Washington, Lyndon Johnson, Manolete, Gertrude Stein, tutte stelle che non avrebbero brillato senza questa selezione, anche improvvisata, dai contorni talvolta ambigui, questo casting ad altezze eccelse.

    Nel riportare le sue storie favorite sul genio percettivo, Hillman nota che “oggi sarebbero probabilmente considerate esempi di favoritismo da parte del professore o casi di attrazione omosessuale tra due maschi o spiegate in qualche altro modo che riduce il dono della percezione a una questione di meschino interesse personale”. E insiste: “C'è rimasta ben poca carità nelle nostre interpretazioni dei rapporti tra due persone, specialmente se una delle due è giovane e l'altra più grande, se una ha il potere e l'altra no. Forse, avendo perduto il potere percettivo, siamo capaci soltanto di percepire, come unica affinità elettiva tra due persone, il potere”. E conclude: “ Oggi quasi non riusciamo più a credere a queste relazioni basate sull'affetto del cuore. Abbiamo imparato a vedere le cose con l'occhio dei genitali. Non sappiamo immaginare rapporti basati sull'immaginazione. Per la nostra cultura il desiderio deve per forza essere inconsciamente sessuale, le relazioni accoppiamenti, le confessioni sincere, sotto sotto, manipolazioni seduttive”.

    Ecco, caro Manconi, la sottocultura di sinistra è peggio dell'ignoranza romantica, che faceva dire a John Keats: “Non conosco altro che la santità degli affetti del Cuore e la verità dell'Immaginazione”. Per Hillman questa frase “ci apre gli occhi sul terreno transumano dell'arte del mentore”. Ecco, il mentore. Magari un mentore che sa di smentire, ma pur sempre un mentore. L'anziano politico, l'imprenditore al culmine del successo pubblico e privato, l'uomo del casting, il mentore – appunto – che affolla le feste di bella gioventù e seleziona con brio leporellesco, senza tante ambizioni ma senza tutto quel risvolto di genitalità che ci vedono i suoi denigratori bacchettoni e molto, molto ipocriti: ecco qualcosa che le sottoculture non riusciranno mai a capire. E mi dispiace.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.