Libertà

Toni Capuozzo

Ripeto spesso che non ho mai vissuto, da giornalista o da lettore o da telespettatore, una stagione di libertà come, questa, nell'informazione. Si sa tutto e si scrive di tutto, si vede tutto e di tutto, e persino di più, come in un poco fantasioso slogan Rai. Nel senso che il lettore forse potrà dirsi disorientato da una tale massa di notizie e opinioni, ma non potrà descriversi all'oscuro. Sa di inchieste giudiziarie – vedi Bari – ancora prima che diventino materia pubblica, però già pubblicabile.

    Non so se qualcuno di voi abbia visto Terra!, ieri sera. Non importa, quello che conta è che sappiate che, con una scelta piuttosto ovvia, ci siamo occupati di Teheran. Lo abbiamo fatto con una telefonica della brava inviata Mimosa Martini, “coperta” con immagini delle agenzie internazionali, quelle stesse che avete visto e rivisto in tanti telegiornali. Perché? Delle restrizioni della libertà d'informazione, in Iran, sapete tutti. E ne sapete abbastanza (la tv iraniana, la stampa iraniana, i giornalisti in esilio, il pedinamento degli inviati stranieri, gli inviti ad abbandonare il paese, “tanto le elezioni sono finite”, l'ostruzionismo nell'etere ai programmi in farsi della BBC, l'oscuramento a singhiozzo del web e delle reti di telefonia mobile, eccetera) da rendere risibile ogni cosa sia stata detta, con serietà o seriosità, con animosità o con petulanza, sulla libertà d'informazione nel nostro paese, l'Italia.
    Ripeto spesso che non ho mai vissuto, da giornalista o da lettore o da telespettatore, una stagione di libertà come, questa, nell'informazione. Si sa tutto e si scrive di tutto, si vede tutto e di tutto, e persino di più, come in un poco fantasioso slogan Rai. Nel senso che il lettore forse potrà dirsi disorientato da una tale massa di notizie e opinioni, ma non potrà descriversi all'oscuro. Sa di inchieste giudiziarie – vedi Bari – ancora prima che diventino materia pubblica, però già pubblicabile. Sa di intercettazioni anche quando non hanno a che vedere con il cuore del reato, epperò rappresentino un qualche elemento di voyeurismo, di pettegolezzo, di innocuo mascariamento, per dirla alla siciliana. Sa di tutto, sia pure con la nevrosi che segna le notizie usa e getta, che siano quelle “a tempo”, come l'utilizzo improprio o no dei voli di stato, o la pandemia che appare e scompare.

    E invece di lamentare il conformismo di tanta informazione, il rimasticare sempre le stesse cose, invece di prendersela con la volubilità, con la superficialità, con le cadute di gusto, eccoli, i guardiani dell'informazione, prendersela gli uni con gli altri, eccitati dal divieto di pubblicare le intercettazioni, o dalle inchieste a tesi preconfezionate del talk show militante. Tanti proclami colmi di apprensione, e vuoti, convegni pensosi e fuffa: basta la prima storia vera di censura, come quella che viene da Teheran, a far fare la figura dei bimbi viziati a tutti quelli che strillano di bavagli e regimi.

    Ripeto spesso che se ci sono dei pericoli alla libertà d'informazione, questi vengono, oltre che dal conformismo militante di tanti giornalisti, dalla mercificazione della notizia, e dall'assoggettamento del mondo dei media alle oggettive leggi di mercato. Nel senso che un terreno delicato come quello delle notizie soffre, se le notizie hanno come criterio prevalente quello della loro vendibilità, e che una qualsiasi impresa dei media si snatura, se viene trattata come una qualsiasi impresa che sforna prodotti. Ovvio che un servizio prodotto in due giorni costa meno che un servizio prodotto in una settimana, ma la qualità del prodotto finale ne risente. Ovvio che un'intervista fatta al telefono costa meno che un incontro a tu per tu, ma il botta e risposta sfuma. Ovvio che il commento e l'opinione costano solo la firma dell'editorialista, e il lavoro dell'inviato sul campo costi molto di più, ma il tribunale dei media dovrebbe richiedere, oltre che periti di parte, qualche testimone. Ed è ovvio che in tivù si moltiplichi il genere talk show, nel quale lo studio e il conduttore sono parte centrale, e i servizi sul campo, quando ci sono, sono solo un pretesto per avviare la discussione: felice il conduttore, felici i politici e gli esperti che hanno la loro visibilità, felice il cassiere che non è costretto a mandare in giro troupe da pagare e assicurare, meno felice il racconto della realtà.

    Scrivo queste righe da Atri, in Abruzzo, dove inizia un festival di tre giorni dedicato al reportage, e si inaugurano mostre fotografiche che resteranno aperte tutta l'estate, e tra esse una collettiva dedicata al terremoto di aprile. Sarà anche una festa, con concerti, letture e quella convivialità spontanea che nasce quando vecchi amici si incontrano, non una pensosa riflessione sulle sorti del reportage e degli inviati, né un malinconico ritratto dello stato delle cose. Ma se mi capita, farò notare che nessun reportage viene da Lampedusa, dove dalla fine di maggio non vi sono sbarchi, e la macchina dei soccorsi, della raccolta, dei controlli è surrealmente inoperosa, ciò che meriterebbe di essere raccontato, senza pregiudizio alcuno. Se mi capita farò notare che è una televisione spagnola a mostrare i militari italiani in combattimento, in Afghanistan. Questo nostrano giornalismo impegnato e ciarliero è andato un po' meglio a Teheran. Ma adesso dovrà scontare il prezzo della censura. Per Terra! prevedo un'altra pausa lunga due anni nella concessione di un visto. Nell'attesa faremo a tempo a partecipare a qualche appassionato convegno sulla libertà d'informazione, la realtà da una parte, il suo specchio dall'altra. Se vi va fate un salto ad Atri.