I cazzotti di Repubblica

Francesco Cundari

Lo si chiami “noto gruppo editoriale”, alla maniera di Francesco Cossiga, “giornale-partito” o “partito-giornale”, il successo di Repubblica è indiscutibile. Quali che siano i contraccolpi politici, parlamentari o elettorali dello scandalo cominciato con la sua fortunata “campagna di Casoria”, Repubblica ha già vinto. E ha vinto due volte. Ha vinto come giornale, capace di trascinarsi dietro buona parte della stampa mondiale e di piegare persino la ritrosia del suo diretto concorrente, il compassato Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli, costretto a scendere sul suo terreno, per rispondere al “caso Letizia” con il “caso Patrizia”. E ha vinto come “partito”.

    Lo si chiami “noto gruppo editoriale”, alla maniera di Francesco Cossiga, “giornale-partito” o “partito-giornale”, il successo di Repubblica è indiscutibile. Quali che siano i contraccolpi politici, parlamentari o elettorali dello scandalo cominciato con la sua fortunata “campagna di Casoria”, Repubblica ha già vinto. E ha vinto due volte. Ha vinto come giornale, capace di trascinarsi dietro buona parte della stampa mondiale e di piegare persino la ritrosia del suo diretto concorrente, il compassato Corriere della Sera di Ferruccio de Bortoli, costretto a scendere sul suo terreno, per rispondere al “caso Letizia” con il “caso Patrizia”. E ha vinto come “partito”.

    Il 25 aprile, raccogliendo l'incauta sfida del Partito democratico, Silvio Berlusconi partecipava alla celebrazione della Resistenza, guadagnandosi il plauso dell'intera opinione pubblica e sommando così al suo già altissimo consenso popolare anche quella legittimazione che gli era sempre mancata. Ma dopo il 25 aprile veniva il 26. La festa di Casoria. E l'inchiesta di Repubblica, con tutte le conseguenze personali e politiche ormai note: le dichiarazioni di Veronica Berlusconi, le dieci domande, l'annuncio del divorzio, le altre feste e le fotografie di Villa Certosa, con il tracimare della polemica dal pettegolezzo al complotto, dal complotto alla crisi politica, con il presidente del Consiglio a offrire lui per primo alla stampa l'argomento più ambito: la sua sostituzione, i possibili congiurati nascosti nella maggioranza e gli aspiranti regicidi annidati tra i cosiddetti “poteri neutri” (che poi in Italia neutri non sono mai, e forse nemmeno altrove).

    Quello di Repubblica è un successo che brilla di luce propria, tanto più abbagliante dinanzi al paradosso di un presidente del Consiglio che precipita dall'apoteosi alla demonizzazione, dall'estasi della beatificazione in vita all'inferno dello sputtanamento globale, dalla marcia trionfale sui cadaveri degli avversari all'isolamento di un rifugio antiatomico sotto bombardamento costante. E senza che in tutto questo il principale partito di opposizione abbia avuto alcuna parte. Tutto il contrario. Al momento di maggiore difficoltà della maggioranza non si accompagna alcuna ripresa dell'opposizione e del Partito democratico, che al contrario continua a precipitare come se niente fosse, e alle elezioni europee perde altri sette punti secchi rispetto alla già pesante sconfitta di un anno fa.

    Il trionfo di Repubblica non potrebbe essere più completo. Il credito acquisito presso lettori ed elettori come unico e solo campione della resistenza al berlusconismo è incommensurabile. Davvero incommensurabile, se persino un avversario storico delle sue mire egemoniche sulla sinistra come Massimo D'Alema, sia pure a denti stretti, si inchina alla dimostrazione di forza, e proprio dagli schermi di Repubblica Tv.
    “Io non sono, com'è noto, un fanatico simpatizzante di Repubblica”, ha detto D'Alema quando la campagna di Casoria era appena agli inizi. “Ma senza dubbio  in questo caso Repubblica ha svolto un ruolo importante per la coscienza civile del paese, con grande rigore giornalistico e con grande forza morale”. Tanto più, proseguiva, considerando il silenzio o la timidezza del sistema dell'informazione nel suo complesso. Prima che Repubblica se lo trascinasse dietro, quel complesso. Per poi fare altrettanto con il Pd. “L'influenza è stata chiarissima nella gestione di Dario Franceschini”, osserva Antonio Polito, direttore del Riformista e a lungo firma di Repubblica.

    “Franceschini era partito parlando di salario sociale per i disoccupati e dichiarando che tra moglie e marito non bisognava mettere il dito; ha finito la campagna elettorale chiedendo agli italiani se avrebbero fatto educare i loro figli da Berlusconi e ripetendo che lo scontro con il centrodestra era sui valori, peraltro dimenticandosi che c'era già un partito con i valori nel marchio, quello di Antonio Di Pietro, che ha raddoppiato i voti”.
    I valori come discriminante fondamentale. Il primato dell'etica sulla politica. La questione morale. Una formula che Enrico Berlinguer lanciò non per nulla su Repubblica, in un'intervista a Eugenio Scalfari. Sul sito Internet del giornale prosegue in questi giorni la raccolta di firme contro la legge sulle intercettazioni. Costanti le campagne contro il lodo Alfano e tutte le famose “leggi ad personam”. Per il centrodestra, Repubblica è da sempre l'avanguardia del “partito delle procure” e dei “poteri forti” che vorrebbero sovvertire il responso delle urne. Una ricostruzione non nuova, e tanto meno imparziale; ma anche ammesso che le cose stiano così, resta da capire se di questa strategia la sinistra sia l'artefice (come sostiene la maggioranza) o se invece non ne sia la vittima.

    “Da quando è stata fondata – ricorda Emanuele Macaluso – Repubblica si è assegnata il compito di influenzare non solo la politica, com'è naturale, ma anche la vita interna dei partiti, per favorire scelte e leadership più omogenee alla sua linea”. Dirigente del Pci e direttore dell'Unità negli anni Ottanta, Macaluso ha spesso polemizzato con Scalfari. “Ma sembrava che questo non si potesse fare. In direzione qualcuno sollevò il problema, su suggerimento di Tonino Tatò (il braccio destro di Berlinguer, ndr), sostenendo che le mie polemiche danneggiavano il partito”. Nella discussione intervenne anche un autorevole dirigente, con la verve che gli era abituale. “Qui siamo al duello tra un calabrese e un siciliano”, disse Giancarlo Pajetta, insinuando ironicamente un movente campanilistico nelle critiche del siciliano direttore dell'Unità. La polemica nasceva dal titolo con cui Scalfari aveva aperto il giorno delle elezioni, le politiche del 1983. “O Craxi o De Mita”. Il Pci aveva il 30 per cento, ricorda Macaluso, il Psi meno della metà. E la Dc perse sette punti. Ma per Scalfari la scelta  – chiamatelo, se volete, bipolarismo – era un'alternativa secca: Bettino Craxi (avversato con ogni mezzo) o Ciriaco De Mita (sostenuto con piena dedizione).

    “Con Repubblica Scalfari ha dato voce
    a un pezzo di borghesia progressista e radicale che prima aveva scarsa rappresentanza nel dibattito pubblico”, dice Miguel Gotor, storico dell'età moderna, ma apprezzato soprattutto per i suoi studi sul caso Moro e sulla linea della fermezza (forse la prima occasione in cui si cominciò a parlare di un “partito di Repubblica”). “Con il suo giornale – dice Gotor – Scalfari ha reso popolari, almeno a sinistra, parole d'ordine che nella cultura italiana erano sempre state di un'élite”. Una concezione della politica che prevede partiti deboli (la “sinistra dei club”, il “partito di opinione”). E anche parole d'ordine di destra. Durante Tangentopoli – dice Polito – Repubblica usò forse per la prima volta, a sinistra, la parola “partitocrazia” (“Ricordo ancora i rimproveri di Giorgio Napolitano”). Il progetto di Repubblica per la sinistra italiana, sostiene Gotor, è sempre stato quello di un “partito azionista di massa”. La stessa definizione che Veltroni ha dato del Pd, suscitando l'ironia dei dalemiani: “L'azionista lo vedo, è la massa che mi pare scarseggi”. D'altronde, non è stato Carlo De Benedetti, editore di Repubblica, a incoronare Veltroni futuro leader del Pd, prima ancora che il Pd fosse nato? Eppure, durante il governo D'Alema, il giornale non era stato ostile al nuovo premier. Fausto Bertinotti, dopo aver fatto cadere Romano Prodi, era rimasto all'opposizione.

    Ma Repubblica gli dava ben poco spazio. E così il segretario di Rifondazione comunista e la responsabile dell'ufficio stampa, Ritanna Armeni, erano andati a pranzo con il direttore di Repubblica, e si erano lamentati. “Vedete – replicò Ezio Mauro – io so che il 20 per cento dei miei lettori vota per voi. Se stessi a una logica di mercato, dovrei darvi più spazio. Ma non ve lo darò, perché altro è il progetto politico cui il giornale si ispira. Un progetto di modernizzazione del paese che non è il vostro”.
    L'idillio con D'Alema sarebbe comunque durato poco. E certo oggi appare curioso, dopo tante furiose campagne sulle sue intercettazioni e sui suoi continui complotti, vedere proprio D'Alema indicato come il regista dell'offensiva mediatico-giudiziaria guidata da Repubblica. Proprio lui che sui giornali del gruppo è imputato di ogni possibile “trama”. Sull'Espresso di due settimane fa, per fare un solo esempio, l'articolo sulle prossime assise del Pd era presentato così: “La batosta elettorale. Il congresso in arrivo. La contesa sulla leadership. Le trame di D'Alema”. Ma anche più significativo, ripensando alle antiche polemiche con Macaluso, era il titolo a caratteri cubitali, che lanciava una sfida inedita e in verità inesistente: “Bersani o Serracchiani?”. La sfida cioè tra Pier Luigi Bersani, simbolo del vecchio apparato, e Debora Serracchiani, simbolo del rinnovamento e del ricambio generazionale. L'avversario di Bersani al congresso sarà però Dario Franceschini: un po' meno forte come segnale di rinnovamento. Ma forse non meno di De Mita nell'83.

    All'indomani dell'intervista con cui D'Alema ha suscitato tante polemiche, parlando di “scosse” in arrivo, il titolo principale di Repubblica era però sulla crisi di Teheran, sul contestato risultato elettorale e sulle prime repressioni. “Iran, il pugno di Ahmadinejad”, titolava il giornale. E chissà che avrà pensato, leggendolo, D'Alema. Nel '94, a poche ore dalla vittoria su Veltroni, il neosegretario del Pds aveva confidato a un giornalista le sue preoccupazioni. “Mi spiegò che fra ‘i tanti soloni dell'informazione' – ha ricordato Giampaolo Pansa – lo preoccupavano soprattutto ‘i super soloni' di Repubblica”. E aveva ragione, proseguiva Pansa, perché “Eugenio Scalfari tifava per Veltroni” e l'indomani fece un titolo graffiante: “Il pugno del partito”. Dopo le dimissioni di Achille Occhetto, infatti, il Pds aveva promosso una consultazione a metà tra le primarie e il sondaggio tra i quadri del partito. Consultazione vinta da Veltroni, ma rovesciata dal Consiglio nazionale, solo organo statutariamente legittimo, che aveva eletto D'Alema.
    Lo statuto del Pd prevede oggi un congresso degli iscritti, che però decide solo chi è ammesso alle primarie. Il contrario di quello che il Pds fece nel '94. E così può anche capitare che il vincitore del congresso sia sconfitto alle primarie, dove l'influenza di Repubblica potrebbe essere decisiva. In una sfida vista come la riedizione dell'antico duello tra D'Alema e Veltroni, facile immaginare il titolo sull'eventuale vittoria di Bersani tra gli iscritti. “Il pugno del partito”, va da sé.

    “Sono trent'anni – confida un vecchio comunista passato con poca convinzione al Pd – che in quel gruppo editoriale domina un'ideologia capace di fagocitare anche i più elementari dati di realtà, pur di restare fedele al suo obiettivo: sradicare quel ceppo della cultura italiana che viene dal Pci. Finché non saremo azzerati non avranno pace, e per farci fuori va bene tutto. Perfino la Serracchiani”. Uno sfogo che forse dimostra solo come comunisti e berlusconiani condividano la stessa ostilità alla libera stampa. O forse semplicemente che in Italia la libera stampa non esiste, e nemmeno una libera politica, ma solo un curiosissimo ibrido, tra inflessibili “giornali-partito” e leggerissimi “partiti di opinione”.